Perché stamani non troveremo i giornali in edicola. Per uno sciopero dei poligrafici cui hanno aderito in parte anche i giornalisti, almeno quelli di Repubblica. Contano sempre meno i lavoratori poligrafici, ed è conseguenza dell’evoluzione tecnologica che ha reso lontanissimi i tempi in cui buona parte della costruzione di un giornale si faceva in tipografia. Qualche editore li tratta ormai a pesci in faccia, come Caltagirone (il Gazzettino, il Mattino, il Messaggero) che ha cambiato il contratto di riferimento per un gruppo di loro. D’altra parte i giornalisti cominciano ad accorgersi come anche la concentrazione delle testate (Repubblica che assorbe Stampa e Secolo XIX) li metta in un piano inclinato che non si sa dove li porti. Dice al Fatto Giulio Anselmi, presidente dell’Ansa ed ex direttore dell’Espresso e della Stampa: “Se due giornali come Repubblica e la Stampa finiscono nello stesso gruppo vuol dire che i giornali pesano meno. Per i politici, si sa, meno giornali si hanno di fronte meglio è. Ai politici piace il rapporto diretto, senza intermediazioni: vedi Twitter, Internet, Facebook. Piace la televisione dove raramente vengono contraddetti….L’informazione non è considerata un bene comune ma uno strumento di potere”. Naturalmente parla così un giornalista che ha dato e ha avuto quasi tutto: molti altri si preoccupano di difendere i loro privilegi. E tacciono. Continua la lettura di Senza giornali
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Quel che si sa, quel che non torna
Bruxelles, quello che si sa, quello che non torna. Si sa che due dei kamikaze erano fratelli, Ibrahim e Kahlid El Brakaoui, uno si è fatto saltare all’aeroporto, il secondo in metropolitana. Fratelli, come Brahim e Salah, il primo suicida allo Stade de France, l’altro si è tolto la cintura e ora collabora con i magistrati belgi. Come Said e Chérif Kouachi, quelli di Charlie Hebdo. Repubblica lo sottolinea, pubblicando le loro foto in prima pagina. Dunque, come è per la ‘ndrangheta, l’orrore sembra maturare in famiglia. Qui però il vincolo familiare sembra orizzontale: genitori, e talvolta fratelli maggiori, vengono tenuti all’oscuro, contestati per essersi ormai assuefatti a una vita che gli assassini-suicidi ritengono non degna di essere vissuta. Quasi tutti gli assassini hanno precedenti per spaccio o per rapina a mano armata – Ibrahim s’era preso una condanna a 9 anni, per questo – e, ad un certo punto, magari dopo l’esperienza del carcere, si sono convertiti dal crimine al dettaglio alla carneficina all’ingrosso, giustificata da una fede settaria – offerta da iman wahabiti, pagati dall’Arabia Saudita, o salafiti -, sublimata dall’idea che un altro mondo (rispetto al consumo occidentale che ti promette tutto e rischia di non lasciarti niente) è possibile: nelle terre del Daesh. Terre nelle quali ogni kamikaze compie il suo viaggio iniziatico, per prendere la strada senza ritorno del macellaio-martire. Continua la lettura di Quel che si sa, quel che non torna