Non importa cosa accadrà. Domani sorgerà il sole. Ha detto Obama nel cuor della notte, quando ha capito che il suo impegno generoso a favore della prima candidata donna era stato sconfitto. Una frase che ricorda quel “Domani è un altro giorno” di Rossella O’Hara in Via col Vento, romanzo scritto durante la Grande Recessione e ambientato nella tragedia della Guerra Civile. Sì, il sole sorgerà su New York dove, mentre scrivo, sono le 2 della notte del 9 novembre 2016 e Los Angeles che vive ancora gli ultimi scampoli dell’8 novembre. Data del giudizio. E il popolo americano ha scelto. Donald Trump ha preso il North Carolina, la Florida, lo Iowa, l’Ohio e la Pennsylvania, il Wisconsin e il Michigan: Washington Post gli attribuisce in questo momento 276 grandi elettori contro 218 della Clinton. Sarà Presidente!

Ha vinto Trump, nonostante tutti i giornali americani e le principali catene televisive avessero fatto l’endorsement per Hillary Rodham Clinton. O forse proprio per questo. Nonostante il Presidente in carica e la first lady avessero sostenuto, come mai era successo in precedenza, la candidata avversaria. O proprio per questo. Nonostante “i mercati”, impersonali e potentissimi padroni del tardi capitalismo, avessero bocciato – in questo momento Tokyo perde il 6 per cento – la sua candidatura. O proprio per questo. Ha vinto Trump, nonostante i democratici gli avessero mosso l’accusa finale: quella di essere in combutta con il principale nemico dell’America, la Russia e il suo Presidente Vladimir Putin. O forse ha vinto anche per questo. Ha vinto Trump, anche se da lui non comprerei un’auto usata, anche se ha fatto bancarotta e molte altre volte l’ha minacciata, se usava ogni trucco per non pagare le tasse. Ha vinto con il suo partito, il Grand Old Party, che si vergognava di lui, che provava imbarazzo per le sue sparate misogine e maschiliste, per i propositi razzisti contro messicani e musulmani, che non lo voleva. O forse ha vinto proprio per questo.

Hanno perso i Clinton, ma anche gli Obama, ha perso il partito democratico che sarà minoranza in Campidoglio, alla Camera dei Rappresentanti come in Senato. Ha perso chi ha scartato Barnie Sanders perché socialista e ha scelto Hillary Clinton pensando che avrebbe sfondato al centro. Chi credeva che la forma assunta nei tempi recenti dalla democrazia – il sistema bipolare e maggioritario – fosse eterna e capace, in ogni congiuntura, di moderarsi tenendo fuori da sé le posizioni estreme. Ha perso la borghesia, colta e agiata, che nel corso degli anni ha espulso dalle città dolore, disagio, sofferenza, per trasformare New York, Parigi, Londra in eleganti vetrine per lo shopping e per chi frequenta i musei. Abbiamo perso noi di sinistra, che ci siamo svegliati troppo tardi con Sanders e con Corbyn, che non abbiamo saputo spiegare che la Terza Via, l’illusione di un capitalismo liberista moderato da un pensiero democratico, era finita già prima di Obama e di Bush, 16 anni fa con Bill Clinton.

Ora toccherà ricostruire dalle macerie. Tornare indietro, di un secolo e più, quando i bolscevichi e gli spartachisti, i socialisti e i sindacalisti, si sporcavano le mani con gli operai e i contadini, con i soldati che aborrivano il fronte e i crumiri che tradivano per bisogno. Oggi abbiamo i millennials, che non credono nella ripresa – sono tutti gufi, direbbe qualcuno -, i giovani che conoscono bene gli hacker, che magari sono un po’ hacker anche loro, e per questo sbigottiscono quando la Clinton li tratta come marionette nelle mani di Putin. Oggi dobbiamo fare i conti con un ceto medio che prende in parola i politici pettinanti e saccenti quando affermano che le ideologie sono morte. Bene, allora voto contro. Quando mi pare. E c’è ancora una Europa. Deludente, ingrata con la Grecia, bistrattata da Orban ma anche da Renzi. Una Europa alla quale l’isolazionismo annunciato da Trump lascia qualche anno o qualche mese, per correre ai ripari, per ripensarsi. La vorrei patria dei diritti e del welfare, della tolleranza e della cultura. Ma a tutte queste belle cose bisognerà strappare la pelle del politicamente corretto, l’ingessatura di chi ne parla dalle terrazze o dai musei, perché ha paura del popolo giacobino di Parigi o della Vandea reazionaria.

Non me l’aspettavo. Come non avevo pienamente capito, nella campagna elettorale del 2013, fino a che punto il Pd di Bersani (e Napolitano) avrebbe perso le elezioni in Italia. Non me l’aspettavo, perché mi ero voluto convincere che l’impegno degli Obama e dei Sanders avrebbe rimediato alla scelta della candidata sbagliata, che sarebbe stato sentito come una promessa di un cambiamento (finalmente) profondo di una politica velleitaria e inconcludente. Non me l’aspettavo, ma lo temevo. Se rileggo i caffè del breve soggiorno newyorkese trovo tra le righe fin troppe profezie da Cassandra. Ora teniamoci il proporzionale, per carità. O una legge che privilegi comunque la rappresentanza popolare, contro l’arroganza dei professionisti di governo. E teniamoci la nostra Costituzione, nata dalla paura proprio per sconfiggere la pianura. Domani è arrivato, il sole acceca per un momento poi apre occhi. Ricorderò ancora una volta quegli 11 minuti firmati da Sean Penn, il suo tributo al Nine Eleven. Un anziano solo in un appartamento vine nel cono d’ombra delle torri gemelle. E si trascina nel buio, innaffia fiori ormai morti, parla a una moglie che non c’è più. La luce entra all’improvviso dalla finestra perché le torri sono crollate. I fiori tornano a fiorire: di colpo il vecchio vede la realtà e piange la moglie morta. Per aprire gli occhi all’America non sono bastate guerre, abusi e torture di Bush, non il tentativo di Obama di prendere atto del fallimento imperialista. Ora ha scelto un rottamatore tutto americano. Saggezza o delirio? In fondo non importa, è tempo di reagire.

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