UE, è lite sui confini. Banche tutto in salita. Repubblica oggi pende verso il pessimismo. Sbatte in prima pagina anche la foto di un terrorista del Bataclan, dopo che la casa madre siriana ha diffuso il video degli 8 kamikaze che minacciavano quel che poi hanno fatto. Ilvo Diamanti, davanti al rischio che Shengen fallisca nel disordine, fa l’elogio dei confini, anzi del lime. Altri due titoli. “Libia, Italia pronta all’attacco” e “Unioni civili, ultimatum 5Stelle al Pd: niente modifiche o ci sfiliamo” completano il quadro nero del giorno. Sempre in prima pagina, Concita De Gregorio avverte Renzi che sulle unioni civili ha “il dovere di dire da che parte sta”. Proprio lui – scrive – che “ha costruito il suo consenso sulle sue proprie parole divenute lessico. Inventate, nuove. Slogan, formule comprensibilissime”, questa volta invece sembra aver cambiato postura e “sorprende il (suo) silenzio”. Ha detto, il premier: votiamo. Ma non ha detto lui cosa pensi e perché. Sarebbe utile. Ai molti che si adeguano all’unisono per essere finalmente liberi di adeguarsi ma soprattutto sarebbe interessante per i cittadini elettori, tutti”.

Meno pessimista il Corriere racconta “i nuovi diritti delle parite IVA” (maternità congedo per le malattie), che il governo dovrebbe varare nella riunione di giovedì. E quanto alla fine di Shengen e della libera circolazione delle persone in Europa, Fiorenza Saracini illustra la posizione italo-tedesca: “Sospensioni di Schengen da concordare”. Un modo per ridurre il danno. Ma in apertura Paolo Mieli – tu quoque, potrebbe dire il premier – impartisce una lezione di storia a Matteo Renzi in vista dell’incontro del prossimo venerdì con Angela Merkel. Frasi come “mai più col cappello in mano”, “non ce n’è per nessuno”, “pretendiamo ciò che ci spetta”, non sono nuove, osserva Mieli. Erano cominciate a circolare con il trasformismo, furono poi coltivate dal sogno (improvvido) di conquistare un impero in Africa, dilagarono con il fascismo per essere finalmente accantonate dal “patriottismo sobrio” di De Gasperi. “Negli ultimi vent’anni poi quel vizietto italico è riemerso con Berlusconi e adesso la tentazione di insistere nell’assunzione di posture baldanzose appare di nuovo forte. Soprattutto nei modi di rivolgerci alla Germania”. E questo “non è saggio”, scrive Mieli, rivolgendosi al premier Renzi che finora aveva sempre sostenuto senza ma e senza se. “Un debito e una spesa pubblica come i nostri ci mettono in condizioni peggiori di quanto fossero quelle di oltre un secolo fa quando avevamo alle spalle Lissa e Custoza (sconfitte italiane del 1866). E per quel che riguarda i nostri successi, il ruolo nuovo che abbiamo conquistato nel consesso internazionale, aspettiamo che siano gli altri a prenderne atto. Le lodi che ci diamo da noi, valgono poco. Anzi, niente”.

L’UE vuole un patto tra i servizi segreti. Il dopo Obama comincia in Iowa sono, invece, i titoli scelti dalla Stampa. Per il giornale diretto da Maurizio Molinari, il vertice europeo dovrebbe servire a costruire quella tela del ragno per impigliare i terroristi del Daesh, che finora è mancata e che potrà nascere solo se i servizi segreti europei cominceranno davvero a cooperare fra loro. Quanto agli Stati Uniti, è il momento dei dubbi sui candidati tradizionali, perché si coglie forte nell’opinione pubblica la diffidenza per i rappresenti l’establishment. “Una classe media senza risposte fa la fortuna di Trump e Sanders”, titola la Stampa e aggiunge: “I sostenitori di Trump temono la grande incertezza sulla crescita. Quelli di Sandrers sono invece preoccupati dal crescere costante delle diseguaglianze”. Dunque nell’uno e nell’altro caso si stratta di una critica politica e non (solo) populismo. Che volete cari lettori, non riesco a non sorprendermi per la coazione a ripetere, i bruschi risvegli e poi le rimozioni, la prassi inerte (avrebbe detto Sartre) che caratterizzano pensiero e azione di tanti politologi, sociologi politici e giornalisti esperti, quando si tratta di enunciare (o peggio di analizzare) i mali (veri o presunti) delle nostre democrazie. In realtà la forma democratica che si è imposta in occidente nel secondo dopo guerra si basava su di una forte crescita del ceto medio e sui limiti posti alla mondializzazione dal vincolo esterno (guerra fredda o estrema povertà del terzo mondo). Il crollo dell’Unione Sovietica, la delocalizzazione della fabbrica (e poi della finanza) nei paesi un tempo emergenti e ora emersi, la crisi che ha investito il ceto medio in Europa e in America e la concentrazione della ricchezza in poche mani, tutto ciò non poteva non aprire una crisi della democrazia. E non è con gli esorcismi, non è con le sedute spiritiche per risuscitare un centro pieno di buon senso, che se ne possa uscire. In Spagna molti elettori vorrebbero che sia Rajoy che Sanchez facessero un passo indietro. Negli Stati Uniti l’ultimo dei Bush è stato già asfaltato e Hilary avrà il suo da fare a convincere – intanto i democratici – di non essere una minestra riscaldata.

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