Benoît Hamon batte Manuel Valls. I giornali in edicola danno la notizia con fastidio: “crisi socialista, pochi al voto, trionfa la gauche utopista”. Chi se ne frega! Alla fine i socialisti non conteranno alle elezioni, quelle vere. Se Valls vincesse le primarie, molti di loro voterebbero per Mélenchon, che si presenta a sinistra del partito socialista. Se invece il secondo turno di domenica lo vincesse Hamon, molti voterebbero per Macron, l’ex delfino di Hollande che ha fatto il cavaliere solo presentandosi alla destra del partito. Molto meglio dunque parlare dell’Italia e del (quarto?) ritorno di Romano Prodi: “Serve l’Ulivo” – ha detto alla Stampa – “I progressisti devono rispondere al malessere della classe media!”. Eppure le primarie francesi – ieri hanno votato un milione e 338 socialisti – meritano per 2 motivi. Il primo è che la Terza Via, la linea governista e simil-renziana dell’ex premier Valls è stata duramente battuta. E non dalla “sinistra plurale”, ma a casa propria, tra i simpatizzanti del Ps. Manuel Valls si è fermato al 31,11%. Mentre Benoît Hamon ha totalizzato il 36,35% cui potrebbe sommarsi il 17,52% di Arnaud Montebourg, il quale ha subito invitato i suoi a sostenere Hamon al ballottaggio di domenica prossima. Il secondo motivo d’interesse sta invece nel successo di Hamon su Montebourg. Quest’ultimo interpretava la tendenza “lavorista”, tipo sinistra Cgil: rimettere al centro il lavoro e i suoi diritti, puntare su ripresa e pieno impiego. Invece Hamon ha sostenuto che l’avvento dei robot e la precarizzazione del lavoro non si possono vincere fermando le lancette della storia: serve piuttosto “le revenue universal”, un reddito di cittadinanza (o d’inserzione) da finanziare unificando i contributi sociali, tassando i patrimoni e combattendo l’evasione. Hamon è apparso più innovatore e meno protezionista, più aperto e meno nazionalista di Montebourg. Ora è ben possibile che con le prossime presidenziali i socialisti francesi perdano il ruolo di forza centrale della sinistra che Mitterrand gli aveva procurato, però è ormai chiaro come anche partiti storici siano scalabili da sinistra e quanto forte sia il desiderio dei militanti di battere strade nuove.

Il pasticcio delle due folle. Siccome le notizie dal mondo interessano poco se non per sostenere una qualche tesi in politica interna, ecco che i quotidiani raccontano oggi l’intenzione di Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme piuttosto che dar conto del primo pasticciaccio nella comunicazione capitato alla amministrazione Trump. La manifestazione delle donne – oggi foto in prima pagina sul New York Times – non è andata giù a Donald che ha subito chiesto come mai quelle donne “non fossero andate a votare”. Subito i suoi uffici hanno offerto alla stampa, bugiarda, i loro “fatti alternativi”, sostenendo che la folla vera, “grande quanto mai prima”, aveva partecipato alla cerimonia d’insediamento di Trump e non già alla manifestazione di protesta. New York Times ha risposto pubblicando, l’una accanto all’altra, le foto dell’insediamento di Donald e di quella accorsa nel 2009 per accogliere Barack. Washington Post ha fatto i conti delle corse nella metropolitana di Washington per raggiungere le diverse piazze: un milione di viaggi per unirsi all’adunata delle donne in rosa, mezzo milione per andare a sentire Trump, un milione centomila per l’esordio di Obama. Quando i fatti alternativi sono disordinate menzogne!

Cosa c’è nella testa di Grillo? Forse non lo sa nemmeno lui. Quest’uomo si è inventato quello che è, oggi, il primo partito d’Italia, ha dato rappresentanza alla frustrazione, e talvolta alla rabbia, di milioni di italiani, ora capisce di doversi misurare con la scommessa del governo ma, venuto meno il bastone al quale credeva di potersi appoggiare (Gianroberto Casaleggio), spesso improvvisa. In una intervista al Journal de dimanche, Grillo ha definito Trump e Putin due “uomini di stato forti” con i quali dialogare. E subito il suo dire è stato assimilato a quello della Le Pen e di Salvini. Però, che bisogna dialogare con Putin, lo dicono oggi pure Prodi e Berlusconi. E molti di noi, pur nell’amarezza per la sconfitta della sinistra, hanno tirato un respiro di sollievo quando, con Hillary Clinton, gli americani hanno archiviato l’idea che si potesse tornare alla guerra fredda, alla dottrina Truman e persino al maccartismo. Quanto a Trump, cito il papa: “Vedremo quel che farà e valuteremo. Sempre in concreto.” Poi però Francesco ha ricordato al Pais la Germania nel 33 e l’avvento di Hitler: “In tempi di crisi perdiamo la capacità di discernere. Cerchiamo un salvatore. Che ci ridia la nostra identità. Che la difenda con muri, pareti, filo spinato, dal rischio che altri popoli minaccino quella identità. E ciò è molto grave”. Sta tutta qui la differenza tra il realismo, che consiglia di mettere Trump alla prova, e la deriva identitaria che spinge parte della destra a ripercorrere la strada ingloriosa del nazi-fascismo. Dopodiché trovo divertente – con lui spesso mi capita – l’indignazione con la quale Pierluigi Battista definisce oggi sul Corriere “assurdo, un paragone fra Trump e Hitler”. Perché assurdo? Perché la storia non si ripete mai nello stesso modo? Ovvio. Ma non è assurdo, anzi può essere utile, ricordare come in passato sia arrivato il peggio. Per evitare che arrivi di nuovo. “Ci sono in Germania 5 milioni di disoccupati – diceva un manifesto nazista – e 5 milioni di ebrei di troppo”. You remember?

Colpo di stato e guerra civile in Turchia. Nel corso del 2016 per due volte i turchi hanno dato oltre il 10% (in Italia equivale al 16%, visto che laggiù votano quasi tutti) al partito di tutti i diritti e tutte le minoranze che si è riunito intorno al leader curdo Demirtas. Oggi Demirtas è in carcere e l’accusa chiede per lui un secolo e mezzo di pena. Erdogan, dopo aver schiacciato lo strano pronunciamento militare di luglio, ha chiesto e ottenuto dal parlamento una riforma presidenziale che gli dà il pieno controllo del potere giudiziario e gli consente di restare al comando fino al 2029. La riforma dovrà essere confermata in primavera da un referendum, ma si voterà in un clima terribile perché il sultano ha scatenato una doppia guerra civile. Contro i curdi, che l’esercito continua a massacrare nei loro villaggi spingendoli ad abbracciare la lotta armata. E contro gli islamisti che da alleati di Erdogan, contro Putin e Assad, sono diventati nemici, ora che Erdogan ha scelto Putin e accettato Assad. Vi racconto un particolare sull’attentato di capodanno. Sapete perché si era diffusa la notizia (non vera) che il killer fosse entrato nella discoteca Reina vestito da babbo natale? Perché da settimane alcuni imam delle moschee di Istanbul, quegli stessi che avevano invitato i fedeli a scendere in piazza per difendere Erdogan dal presunto golpe militare, avevano emesso una fatwā contro il natale e l’uso occidentale di festeggiare l’anno nuovo. L’attentato era atteso, un danno collaterale per la resistibile ascesa di Erdogan verso la conquista dei pieni poteri. Una Europa che volesse vedere le carte di Trump in politica estera, dovrebbe intanto dire no a Erdogan. Riconoscere che i russi non hanno solo torti in Ucraina e aprire un negoziato con Putin. Difendere i curdi, denunciare la copertura che l’Arabia saudita garantisce al terrorismo islamico, offrire un proprio impegno concreto contro Daesh.

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