Da scemo del villaggio a statista. Chi? Ma Jean-Claude Juncker. Fino a ieri il grigio burocrate, l’uomo dei decimali, quello che voleva fare gli esami all’Italia, lui che aveva guidato il governo di un paradiso fiscale come il Lussemburgo. Oggi un grande giornale lo promuove statista. “Europa-Trump, alta tensione”, Repubblica. Solo perché Junker si è lasciato scappare quello che molti diplomatici magari pensano ma che tengono per sé: “Perderemo due anni, il tempo che (Trump) faccia il giro del mondo che non conosce”. La Stampa, sempre ispirata dalla medesima frase, titola: “La ricetta di Trump spaventa la Ue”. Poi spiega: “Mercati senza vincoli e più soldi alla difesa. Juncker attacca: equilibri mondiali a rischio”. Forse chi ha rilanciato questo autorevole grido di dolore ha voluto, per carità, senza dirlo in modo esplicito, criticare il nostro presidente del Consiglio, il quale è tanto veloce da non aver tempo per pensare. Non pago di aver strappato la sua, pur recentissima, foto di Ventotene con Hollande e Merkel, ora deve aver nascosto nelle cantine di Palazzo Chigi la bandiera dell’Unione Europea per presentarsi in conferenza stampa con dietro solo il tricolore. Sconsolato Prodi: “Quando l’ho visto, mi si è stretto il cuore”.

Renzi “deve” vincere e perciò gioca sporco. Cavalca il populismo anti europeo, lui, da tre anni al governo, prova a guidare il movimento anti casta. Per mandarli a casa, tutti, e poter rimanere solo al volante. Così ha mandato una lettera agli italiani all’estero, potenzialmente 4 milioni di voti. L’ha mandata nella sua qualità di Presidente del Consiglio ma, a quanto dice, facendo pagare carta e spedizione al partito di cui è segretario. Non è chiaro chi abbia fornito l’elenco degli indirizzi. All’estero, diciamo in sud America, si vota anche per lettera, nel “segreto” della propria casa, non come in Italia mettendosi in coda ai seggi. All’estero, diciamo in America, è calata la celestiale Ministra dei rapporti con il Parlamento, madonna Boschi. Non sono andati i gufi Onida o Zagrebelsky. Laggiù una parte degli aventi diritto al voto ha dimenticato le sottigliezze della madre lingua: cosa sia scritto nell’articolo 70 o come i Costituenti intendano eleggere i senatori è, per questi bravi italiani, arabo o cinese, materia astrusa e in fondo non rilevante. Quello che arriva è il messaggio semplificato della letterina e della madonna pellegrina: “c’è un ragazzo volenteroso che vuole cambiare” il paese, ma contro di lui si erge una congiura (dei pazzi?). Vecchi livorosi, da D’Alema, a Bersani, a Brunetta (da infilare nel mazzo per via dell’altezza), a Berlusconi. Che rosicano e vogliono mangiare il ragazzo ormai cresciutello. Ezio Mauro, già direttore di repubblica, deve essere stato preso da un moto di disperazione e ha narrato l’incontro a Palazzo Chigi tra Renzi e Bersani, avversari che si rispettano per il bene dell’Italia, come Obama e Trump nel loro colloquio alla Casa Bianca. Purtroppo è un sogno, ammette Ezio Mauro.

A proposito di sogni e di incubi, il Manifesto monta a cavallo della “parata della vittoria” che il Ku Kluz Klan dedica a Trump e delle proteste contro Trump. E titola così il fondo di Guido Molteno: “Un conflitto permanente li seppellirà”. Vorrei dire ai compagni del manifesto, con l’amicizia per chi ha imparato a scrivere a spese di quel giornale, che secondo me non funziona così. Non è che ragazzi di colore, lavoratrici bianche, ispanici senza green card si siano messi d’accordo prima per stoppare Hillary per poi tirare giù Donald a forza di proteste e di scontri in piazza. Le manifestazioni comunicano piuttosto la frustrazione di chi si è accorto di contare poco, la paura per quel che può ora accadere, forse la rabbia verso una sinistra accecata dalle luci della città (era un film di Chaplin) che si è chiusa in una bolla con tutto l’establishment, politico, culturale e mediatico. I contestatori Trump li chiama “agitatori professionali incitati dai media”. Gli danno fastidio, perché preferirebbe raccontare un’America che si unisce nel suo nome, ma al primo sparo manderà lo sceriffo. E non dovrà preoccuparsi più di tanto. Finché la protesta non diverrà progetto e la sinistra urbana non uscirà dalla tana per tornare a incontrare il disagio e a fare proposte, come vorrebbe Sanders.

Trump modera la linea sulle riforme. Il Corriere della sera, invece, si fa piacere quel che nel dopo voto c’è di buono, o di meno cattivo. Riprende l’intervista al Wall Street Journal in cui Trump ha detto che “l’inchiesta penale contro Hillary” non è più “in cima ai (suoi) pensieri”, che “la riforma sanitaria di Obama potrebbe essere emendata e non abrogata”. Poi promette che la de-regulation spingerà le banche a prestare nuovo denaro e che la distensione con Putin aiuterà a battere l’Isis. – A proposito, è l’anniversario del Bataclan. Non si fa in tempo a spararsi un incubo che ne arriva un altro! – Il Corriere fa di più, ripesca il precursore italiano di Trump, quel Berlusconi, anch’egli amico di Putin, anch’egli ex palazzinaro e uomo di televisione. Il quale, con garbata soddisfazione, ritiene che Renzi sia giunto al capolinea, prevede che sarà sconfitto il 4 dicembre e che dovrà dunque venire a Canossa, ovvero chiedere il suo aiuto. Così si porta avanti con i lavori. In modo ineccepibile.

Berlusconi: «Chiedo una legge elettorale proporzionale a turno unico per una ragione che mi pare evidente: la realtà politica italiana è cambiata. Un tempo esistevano due poli, ora ne esistono tre. Vent’anni fa votava l’80% degli italiani, e allora un sistema maggioritario aiutava il polo vincitore ad avere numeri sicuri per governare. Ma il vincitore rappresentava la maggioranza degli elettori, o ci andava molto vicino. Oggi invece ognuno dei tre poli rappresenta circa un terzo dei votanti. E i votanti sono la metà degli aventi diritto al voto. Quindi un sistema come l’Italicum – nel quale chi vince piglia tutto – avrebbe come effetto che un partito o uno schieramento con il 15-20% del consenso effettivo potrebbe tenere in mano tutte le leve di governo del Paese. Questo è il vero problema della legge elettorale. Noi dobbiamo tornate ad essere una vera democrazia. E, lo ripeto, ci è necessaria una legge che, impedendo finalmente ogni possibilità di brogli, garantisca la corrispondenza fra la maggioranza in Parlamento e la vera maggioranza degli italiani. In questo caso, noi ci candideremo a vincere. Saranno altri a doversi porre il problema di collaborare con noi”.

C’è molta confusione, ma sotto questo cielo forse si offre una possibilità anche per una sinistra. A condizione che faccia politica, che avanzi proposte, e la smetta di considerarsi una condizione antropologica o esistenziale, che la smetta di raccontarsi come il risultato di una presunta evoluzione della specie. Per cui, noi di sinistra, siano tutti ecologisti, pacifisti, femministi, gay, buonisti. Ma poi non è chiaro cosa proponiamo. Se fosse per me:

a) rilanciarei, proprio ora che l’Europa è a un passo dal fallimento, una proposta per rifondare l’Unione europea, facendone la casa dei diritti e delle garanzie e il custode del confronto multilaterale. In politica estera significa provare a sanare la ferita in Ucraina e togliere quanto prima le sanzioni alla Russia. Minacciare di rompere ogni rapporto con chi protegge Daesh (vedi Arabia Saudita). Chiedere ad Ankara di rispettare i diritti dei curdi e delle opposizioni, se vuol proseguire il dialogo e i commerci con noi. Un’Europa che salvi subito la Grecia, che riveda la politica economica dettata dai tedeschi, si dia un embrione di politica fiscale comune, rompa il pietoso balletto dell’intransigenza urlata a gran voce, ma poi annacquata con dosi più o meno forti di “flessibilità” concesse allo studente che sembra ribaldo ma che è zelante, quando si tratta di applicare le improbabili ricette dei mercati;

b) impegnarci tutti per far vincere il No. E presentare il 5 dicembre un progetto di legge elettorale che garantisca la rappresentanza e il rapporto tra elettore ed eletto. Mi pare che su questo ci sia ormai una larga base d’intesa sia con Grillo che con Berlusconi. Chiedere a Renzi (che si dimetterà ma sarà rinviato alle Camera da Mattarella) se la sente di restare a Palazzo Chigi, ma per guidare un governo di conciliazione nazionale, che aiuti a definire la nuova legge elettorale e provi (per non sprecare il lavoro “costituente”) ad assumere le proposte (sensate) di riforma costituzionale a cui hanno lavorato le fondazioni di D’Alema e Quagliariello. Un governo che ospitando il vertice europeo, nel sessantesimo dei trattati di Roma, avvii una autocritica su come si è costruita l’Unione. Qualora Renzi non se la sentisse – dopotutto non è il suo programma – che onori allora l’antica promessa e lasci il posto a una personalità più adatta a ricucire la tela che egli ha contribuito a strappare;

c) aprire un grande confronto su un nuovo progetto politico, per una sinistra che accetti le sfide del millennio. Un confronto che coinvolga Sinistra Italiana e Possibile, Rifondazione e il partito dei sindaci ex arancione (Zedda, Pisapia), la minoranza Pd e gruppi di base e associazioni No Profit (senza chiamarli “movimenti”, ma accettandoli per quello che sono, cioè soggetti politici che provano a fare politica senza gruppo parlamentare). Inviterei il Manifesto e il Fatto quotidiano, Left e Micromega. Lo so, è un’area troppo vasta e composita per stare insieme. Ma serve un confronto che apra le porte, non le chiuda. Perché in verità io credo che solo riprendendo a parlare di politica nelle città e nei centri minori, andando a cercare i giovani e le lavoratrici madri, solo ritrovando il gusto di dividersi sulle idee e le proposte (per poi riunirsi) e non sugli interessi di setta e su chi si debba eleggere, solo nel fuoco di un appassionato, e aperto, e pubblico, dibattito politico io credo che possa nascere un soggetto di sinistra degno di tale nome. Non vedo invece in giro né grandi federatori, né leader carismatici, né movimenti che ci tolgano la castagne dal fuoco.

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