Detesto la retorica, so che le parole ripetute mille volte cambiano di significato. Così a ogni anniversario volto lo sguardo altrove. Anche quando ricorre la morte per mafia di qualcuno che ho conosciuto, persino di un caro amico.  Però oggi il post di uno dei miei figli, Manfredi 21 anni, mi induce a superare il riserbo o, se preferite, la nausea. “Credo -scrive- che il processo di eroicizzazione dei due giudici sia arrivato a livelli talmente esasperati da produrre un effetto contrario”. Vero. In un paese con la coda di paglia, chiamiamo “eroe” chi ha dato un esempio che intendiamo seguire, un modo per seppellirlo di nuovo.

“Perchè Falcone e Borsellino erano più temuti di altri giudici dalla mafia?” Perchè seguivano, con pazienza, la traccia del patrimonio mafioso. Perchè il patrimonio accumulato, la roba, è lo status symbol del mafioso, l’ubi consistam del mafiare. Direi che oggi quell’insegnamento rischia di perdersi. I mafiosi di Trapani (Matteo Messina Denaro) e di Reggio Calabria (la ricchissima ndrangheta) non vogliono che chi tiene i loro soldi entri a far parte dell’organizzazione. Se i giudici non possono, infatti, appioppargli l’accusa di associazione mafiosa, costoro non finiranno in carcere perché perseguibili solo per reati tipici dei colletti bianchi e nei confronti dei quali, in Italia, siamo di manica molto larga.

È vero, il Parlamento ha varato pene più severe per la corruzione. È vero, il premier assicura che in futuro non scatterà più la prescrizione. Però il suggerimento, semplice e garantista,di Roberto Scarpinato (dopo una condanna di primo grado si sospenda il decorrere dei termini di prescrizione per dire agli avvocati che, da quel momento, gli toccherà difendere l’imputatonel processo e non dal processo) non è stato accolto. Si è preferito aumentare le pene per i mafiosi, per i killer di mafia. Come se tre ergastoli proteggessero meglio la comunità di uno solo. Vedremo. Però la mafia, per Falcone, cominciava dall’attività finanziaria, oggi si preferisce di nuovo seguire la traccia del sangue, si torna a confondere il mezzo con lo scopo.

“Qual’è il confine tra mafia e cultura siciliana?” La mafia è tanta parte della borghesia siciliana. Dai tempi dell’inquisizione al referendum (truccato) per l’annessione all’Italia sabauda, i dominatori non sono mai stati amati in Sicilia  Ma anzichè provare a rovesciarli -qualche volta ha tentato, ma senza successo- una parte della borghesia ha preso a chiedere un risarcimento -potere e soldi- da amministrare a modo proprio. Una volta abbiamo usato la metafora del Giano Bifronte: la mafia che assicura il consenso e ottiene in cambio il potere. La borghesia  che si forma così è una classe che vive di intermediazione e distribuisce assistenza clientelare. Non solo in Sicilia. In Calabria, dopo la stagione dei sequestri in Aspromonte, medici, notai, farmacisti sono scappati via, lasciando quasi tutti i ruoli e le funzioni della classe dirigenti ai figli di mafia, che rappresentano anche lì una borghesia intermediaria e parassitaria, dunque mafiosa. A Roma con la crisi, con le emergenze, usando la faccia feroce di qualche avanzo di galera, e rispondendo al bisogno di far incontrare (e accordare) chi ha bisogno di una commessa pubblica e chi può darla, si è formato -spiegano i procuratori Pignatone e Prestipino- “un fenomeno mafioso originale e originario”, un anuova mafia. Questa particolare borghesia mafiosa ha, ovviamente, una sua coscienza di classe e una sua cultura. Falcone e Borsellino l’avevano respirata da bambini, quella cultura, e sapevano combatterla.

“Se ci ricordiamo ogni anno chi sono gli eroi dell’antimafia, ma poi non sappiamo cos’è la mafia, un giorno torneremo inevitabilmente a dire che la mafia non esiste”. Già ora, per qualcuno, la mafia non esiste, Il Presidente della Confindustria siciliana, amico e mentore del Presidente antimafia della Regione Sicilia, ha dichiarato Caltanissetta provincia mafia free. Dimenticando, o fingendo di dimenticare,  che quasi tutte le famiglie di mafia contano un avo o un parente a Caltanissetta. Dichiarazione azzardata. Magari non si pretenderà  il pizzo al dettaglio, ma mi chiedo chi faccia gli affari in quella provincia, chi detenga il potere, chi consigli e disponga.  Non sono persuaso. Distinguere le persone tra chi ha avuto l’avviso di garanzia per mafia -ora anche quel Presidente l’ha ricevuto- e chi invece no, mi sembra un’operazione pilatesca. Il mafioso si riconosce per il tipo di affari che fa, per la fama di cui gode, per la capacità di influenzare gli altri poteri. Distribuire certificati e beneferenze è, quanto meno, pericoloso: somiglia a un lasciapassare, utile soprattutto al mafioso.

A don Ciotti non piacciono più parole come antimafia e legalità. Credo che abbia ragione. Sbagliò Leonardo Sciascia a tuonare contro i professionisti dell’antimafia, irritato dalla scorta di Borsellino che scorazzava a tutta birra. Più che professionisti quelli erano sopravvissuti.Ma gli scrittori sono così: i loro errori si rivelano a volte predizioni. Oggi forse la mafia sta cambiando, il pizzo rende meno, qualcuno torna al traffico minuto di stupefacenti con i rischi che si corrono, e l’alta mafia può trovare riparo all’ombra di professionisti dell’antimafia, ai quali può persino permettere di potare i rami secchi della  pianta mafiosa.

Dopo l’agguato di Capaci ebbi modo di vedere e ascoltare Paolo Borsellino, una notte a Palermo. Curato, ben vestito, con voce pacata e una ricerca delle parole da usare. Sembrava, quella sera a Casa Professa, un attore che sta dentro e accanto il personaggio -come direbbe Nanni Moretti. O un uomo che si prepari, con dignità, all’epilogo inevitabile delle scelte fatte: la morte per mafia. Non so se uomini dei servizi segreti lo spiassero in quei giorni dal Castello Utveggio, come credeva e temeva. Non so uomini dello Stato stessero discutendo con Cosa Nostra, e se la sua morte fosse il prezzo della trattativa e l’incentivo a proseguirla. Non so neppure, se le popolane del Capo e di Ballarò che vidi gridare “assassini, assassini” ai funerali di Stato dopo via D’Amelio volessero la testa dei “viddani corlenesi”  o se invece non stessero recapitando un messaggio di mafia: questo giudice l’avete ucciso voi!  Ma quello che avvenne in quei giorni e poi proseguì, dopo la cattura di Riina e durante la lunga latitanza di Provenzano, non è stato mai davvero chiarito. I procuratori che hanno cercato di occuparsene  sono stati spesso tacciati di seguire delle fole o di infangare funzionari dello stati, persino di voler destabilizzare le istituzioni. Anche qui ha ragione Ciotti, la legalità che si fonda su bugie e omissioni, è un valore senz’anima, bacinella per le mani di Ponzio Pilato.

Eppure tante sono state fatte, tante vittorie sono state conseguite. Sono una bella cosa le associazioni delle vittime della mafia: ogni anno vanno in piazza nel primo giorno di primavera, a ricordare ma anche a testimoniare. Dove i mafiosi avevano ville e terre,spesso operano belle cooperative di ragazzi. Poliziotti, carabinieri, magistrati hanno inferto colpi durissimi ai mafiosi. Sono stati bravi: cito per tutti Giuseppe Linares che per anni ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro ed è stato trasferito da Trapani, quanto già sentiva l’odore del super latitante. Oggi nessuno più dica che Peppino Impastato era un terrorista, che Mauro Rostagno se l’era cercata perchè era uno strano, che a don Puglisi  piacevano le ragazze. Però fino a quando non sapremo distinguere il pane onesto, portato a casa da chi lavora sodo, da chi inventa il futuro e costruisce una società più giusto, dal pane sporco, del corrotto e del corruttore, del politico compiacente e di chi chiude gli occhi per mangiare di più, no, non avremo reso onore a Cassarà, a Chinnici, a La Torre, a Piersanti Mattarella, a Rita Atria.

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