Il colpo di stato è fallito. Nella notte una folla ha circondato i militari “buoni” ad Ankara e Istanbul. In difesa di un presidente eletto, ancorché dispotico e lunatico. Una folla che ha affrontato le armi a mani nude, che è salita sui tank, che ha detto “no, grazie”, il popolo è sovrano e l’esercito non può proteggerlo contro la sua volontà. E ha vinto quella folla. Eppure alle 10 di ieri sera, quando aerei da caccia ed elicotteri hanno preso a sorvolare Ankara, e i ponti sul Bosforo sono stati bloccati dall’esercito spezzando in due Istanbul, quando l’aeroporto Ataturk è stato occupato e la televisione di stato è stata spenta, pochi avrebbero scommesso su di un tale esito. I social media non funzionavano perché i militari golpisti avevano adottato le medesime tecniche di controllo sperimentare da Erdogan. I Media internazionali raccontavano di un presidente in fuga verso la Germania e di Berlino che gli avrebbe negato il permesso di atterrare, i titoli dei nostri giornali davano già per concluso il tempo di Erdogan, ma Erdogan stava parlando alla televisione, alla CNN turca, si stava facendo vedere, usando il sistema Apple di video chiamata, stava chiamando il suo popolo a resistere. Gli Imam nelle moschee – era notte tarda, ma pur sempre venerdì di preghiera – invitavano i fedeli musulmani a sollevarsi in difesa del sultano. Così fra mezzanotte e le due lo scenario è cambiato. Il rapporto di forze si è rovesciato. La televisione è stata “liberata”.

754 militari sono stati arrestati, 16 uccisi – la polizia era sempre rimasta dalla parte di Erdogan -, 29 colonnelli e 5 generali sono stati rimossi dall’incarico. «All’interno delle forze armate purtroppo c’era un gruppo di persone che non ha potuto ammettere l’unità della nostra nazione e che si è organizzato in uno stato parallelo», ha detto Hulusi Akar, capo delle forze armate turche, sequestrato dai militari ribelli in una base aerea alla periferia di Ankara durante il tentativo di golpe. “Questo Paese ha un governo legittimato dai voti del nostro popolo…se vi azzardate a puntare le stesse armi contro la nazione, dovrete renderne conto”. Parole che sembrano promettere una resa dei conti. Perciò ci si chiede: quanti altri reparti, quanti altri alti ufficiali della Turchia e della Nato sapevano del colpo di stato ed erano disposti a sostenerlo? Costoro si rassegneranno, si consegneranno e accetteranno di finire sotto processo? Stanotte, dopo un’ora di black out, di silenzio imbarazzato, le cancellerie occidentali hanno scelto di sostenere il governo legittimo e il presidente eletto: “L’ordine democratico deve essere rispettato”, Lavrov, il russo, ha chiesto “evitare un bagno di sangue”.

Eppure Erdogan aveva fatto di tutto per meritare di essere cacciato. Si era alleato, di fatto con Daesh, vendendo armi al califfo in cambio di petrolio, aveva sbattuto in galera come traditori i giornalisti che avevano documentato tali accordi, aveva rotto la tregua con i curdi, bombardando le postazioni in Iraq e in Siria da cui combattevano Daesh, ma anche spianando villaggi del Kurdistan, aveva fatto abbattere un aereo da caccia russo al confine tra Siria e Turchia, aveva vinto le elezioni due volte – la seconda più chiaramente – ma lasciando che il voto fosse disseminato di attentati e minacce contro il partito curdo che, ciononostante, entrambe le volte aveva superato la soglia del 10% necessaria per entrare in parlamento. Non contento, Erdogan aveva sospeso l’immunità parlamentare mettendo i deputati dell’opposizione sotto il ricatto dell’arresto, aveva fatto entrare un imam a celebrare il rito islamico dentro Hagia Sofia, la basilica bizantina che dal 1935 era stata trasformata in museo e per questo interdetta ai muezzin. Da ultimo il presidente eletto stava facendo marcia indietro su molte cose, senza che fosse chiaro perché e in quali direzioni volesse portare il paese. Aveva inviato una lettera di scuse a Putin per l’abbattimento dell’aereo, aveva riavviato relazioni diplomatiche con Israele e sembrava persino disposto a discutere del dopo Assad con le tribù alavate, sostenute dai russi, e che combattono in Siria i suoi ex alleati sunniti.

Non è più tempo per colpi di stato. Informati in tempo reale, consapevoli di sé, i popoli -che sono poi masse di individui – non sopportano nessun protettore se non quelli che scientemente, sebbene talvolta incautamente, si sono scelti. La democrazia vince in Gran Bretagna, paese che dopo il referendum si separerà davvero dall’Europa e che ha chiamato a guidare il ministero degli esteri il trionfatore del Leave, quel Boris Johnson che aveva parlato di una Germania (e di un’Europa) nazional socialista e definito “infermiera sadica” Hillary Clinton. La democrazia vince a Istanbul, anche se non sappiamo se il potere legittimo, dopo il fallimento del colpo di stato, non scatenerà ugualmente una guerra civile per promuovere un progrom contro i curdi e imporre la sharia, la legge islamica, a un paese in cui l’esercito era stato per un secolo tiranno ma anche garante di una certa laicità. La democrazia rischia di portare Trump alla Casa Bianca, se la sua avversaria democratica continuerà ad apparire troppo vicina all’establishment, cioè ai luoghi dove si decide in modo oscuro e in nome delle elites e non del popolo. La democrazia porterà l’anno prossimo Marine Le Pen al ballottaggio, travolgendo senso e intenzioni della legge maggioritaria e della costituzione voluta da De Gaulle. Il voto democratico ha già portato due fascisti al potere in Ungheria e in Polonia, paesi che fanno parte dell’Unione Europea. Questa è la contraddizione con cui fare i conti. E la Turchia è l’anello sensibile, la Turchia ha una enorme importanza strategica. Un paese, uno stato, un’esercito – punta di diamante della Nato -, che se finissero in preda al caos potrebbero davvero scatenare una guerra mondiale, stavolta non “a pezzi”. Ma è un illuso chi crede di poter fare a meno del rapporto con le masse, con il giudizio del popolo, con le scelte della maggioranza, giuste o sbagliate che siano. Viva le democrazia. Brindo al fallimento del golpe, anche se temo Erdogan e non escludo che voglia trasformarsi in Sultano.

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