I fatti separati dalle opinioni, fu lo slogan del primo Panorama diretto da Lamberto Sechi. Oggi proverò a separare, leggendo i giornali, i fatti da opinioni. Non è facile, perché spesso i fatti sono notizie sulle quali si è affermata un’opinione prevalente, più quella opinione non prevale più smettono di essere fatti. Tenterò comunque. FMI prevede per l’Italia una crescita dello 0,9% nel 2017, Ocse dello 0,8%, Confindustria dello 0,7. Invece il governo mette in conto un +1%. Alle critiche di Bankitalia che ritiene “ottimistica” tale previsione, Padoan ha risposto in Parlamento che “è vero, l’obiettivo del 1% è secondo alcuni ottimistico, secondo altri ambizioso ma che, a suo parere, è un obiettivo realizzabile”. Questo è un fatto. Titoli: “Padoan difende la crescita all’1%: è realizzabile”, Corriere della Sera. “Battaglia sul DEF: stime da rivedere. Renzi dice: i soldi ci sono”, Repubblica. È un fatto pure che ieri il differenziale di rendimento fra i Btp e i Bund tedeschi, insomma il famoso spread è salito di 7 punti”. L’opinione (piuttosto diffusa) è che ciò sia stato provocato dall’intenzione della BCE di non comprare più ogni mese fino a 80 miliardi di titoli di stato. La BCE smentisce, ma La Stampa vede già la “tempesta perfetta” addensarsi sul nostro paese: “La BCE studia il taglio al bazooka”. “Il fondo monetario taglia le stime di crescita dell’Italia”.

Un incrocio pericoloso tra l’economia e il 4 dicembre. Titolo del commento di Massimo Franco per il Corriere e questa, non c’è dubbio, è un’opinione. Così come è un’opinione quella di Tony Barber che scrive sul Financial Times: “Le riforme costituzionali di Renzi sono un ponte verso il nulla. Una vittoria potrebbe rendere chiara la follia di mettere l’obiettivo della sopravvivenza del premier davanti al bisogno di una democrazia sana”. Anche Aldo Cazzullo esprime un’opinione (che sembra riprendere il mio caffè di ieri) quando scrive per il Corriere: “referendum, trappola per le elites”. La storia dei referendum, da quello perso da Cameron a quello perso da De Gaulle, dimostrerebbe che “quando si tratta di dare un’indicazione netta, l’istinto popolare tende a orientarsi sul no”. “Renzi – aggiunge Cazzullo – ha creduto di rafforzare il sì offrendo la propria testa all’elettorato, e ha ottenuto il risultato contrario”. Opinioni, dunque opinabili, ma fondate sulla serie storica degli eventi referendari e sull’intreccio tra voto del 4 dicembre e difficoltà a varare una manovra le cui cifre sono già contestate ma che rischierebbe di andare a gambe all’aria qualora la Banca di Francoforte prendesse a comprare meno titoli del nostro debito pubblico.

Dal Pd 2,8 milioni di euro per la campagna del Sì. 400mila al guru Messina. Titolo della Stampa: se è vero è un fatto. Alla luce del quale, lo scontro referendario appare impari: i David del No, Zagrebelsky e Onida avvezzi alle conferenze ma non allo scontro politico e mediatico, contro il gigante Golia, Matteo Renzi, che può pagarsi gli spot che vuole e si fa allenare da un personal trainer, il cui cachet vale quasi mezzo miliardo. Rebus sic stantibus, la sfida lanciata da Renzi “dibattiti con tutti, anche con D’Alema e Grillo” suona come una smargiassata degna di quel Rodomonte dell’Ariosto. E non lo rende simpatico.

Renzi gioca su due diversi tavoli. Anche questa è un’opinione, la mia. Da una parte ora sostiene che il 4 dicembre non si vota né sul suo governo né sull’Italicum. E con la faccia più innocente chiede: non volete chiudere il CNEL, superare il bicameralismo paritario, ridurre il numero dei senatori, togliere qualche potere alle regioni, far risparmiare qualche euro allo stato? Se il suo competitor televisivo prova a obiettare che il bicameralismo resta e diventa confuso, che non ha senso dire che i senatori saranno eletti dai consigli regionali in conformità con la scelta degli elettori, né è ragionevole togliere alle regioni la possibilità di concorrere alla legislazione nazionale e lasciargli invece ogni potere di spesa, a tutto ciò Renzi ribatterà: non vi accontentate mai? Meglio far qualcosa subito che niente in futuro. Dall’altra parte, però, il governo evoca e prova a organizzare “l’Italia del Sì”, cioè un’Italia che sostenga, con il voto del 4 dicembre tutte le riforme (dal jobs act, alla buona scuola, dagli 80 euro agli sgravi alle imprese), che conforti l’ottimismo del governo e i numeri (ballerini) della finanziaria, e che conferisca a Matteo Renzi una delega a proseguire fino alla conclusione naturale della legislatura nel 2018. Provate a denunciare questo “fatto” e verrete accusati di disfattismo, di personalizzare (voi!) lo scontro, di essere animati da astio preconcetto verso un premier riformatore. La trappola è ben costruita, ma il troppo stroppia e il rischio per il premier è di vincere senza convincere, di indurre il sospetto che la sfida sia tutta una furbata.

Cucchi ucciso dall’epilessia. È un fatto che il collegio dei periti abbia definito “probabile” che Stefano Cucchi sia morto in seguito a una crisi epilettica. Però la stessa perizia ammette che questa “ipotesi” non ha sufficienti “riscontri obiettivi”. Inoltre riconosce che le ecchimosi riscontrate sul corpo di Cucchi erano “recenti”, dunque verosimilmente conseguenza di un pestaggio subito dopo l’arresto. Così il fatto diventa opinabile. Morì forse per epilessia ma fu selvaggiamente pestato. Le botte non sembrano la causa del decesso ma Cucchi non stava bene e si trovava nella completa disponibilità di medici, infermieri e agenti. La mia opinione assume, allora, la forza di un fatto: Stefano subì un trattamento disumano. Poi è morto.

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