Miracolo sotto la neve, è il bel titolo della Stampa. “I bambini salvati”, grida il Corriere. Salvati, dopo quasi due giorni al buio delle cucine, con poca aria e il silenzio sopra la testa. Ma vivi! Giannelli dà così la buona novella: “Finalmente una manovra correttiva del padreterno”. Però quel padreterno ha agito con le braccia e con il cuore delle donne e degli uomini che hanno scavato di giorno e di notte, che non si sono arresi davanti a quel silenzio tombale, che hanno sperato e hanno osato. Quelli che, primi, sono arrivati a Rigopiano con gli sci coperti da pelli di foca, quelli che quando il mezzo apristrada s’è fermato per mancanza del gasolio non si sono messi a bestemmiare dio e il mondo, ma sono andati avanti. Sono italiani come noi quelli che hanno tratto in salvo 10 persone. E sono anche loro lo Stato Italiano, quello Stato di cui spesso, non a torto, diciamo male. Non hanno scavato a mani nude, avevano – ora lo sappiamo – delle micro telecamere che come serpenti si sono infilati sotto la neve fino a scoprire il respiro dei sopravvissuti. Sapevano come cercare, avevano i mezzi per farlo. Questo miracolo è dunque un miracolo italiano. Anche se questo non chiude le polemiche. Perché per uno solo dei non salvati, per ogni famiglia che lo piange, c’è una Italia che deve chiedere conto dei ritardi, della mancanza dei mezzi per rimuovere la neve, della scelta discutibile di autorizzare la costruzione di un hotel a 1200 metri e all’incrocio di due canaloni. Lì valanghe non se ne ricordavano da decenni, ma bastava guardare la montagna per sentirsi inquieti. Anche il lago Pontchartrain non esondava da un secolo, epperò sovrastava New Orleans, e la speculazione nel tempo avevano seppellito i canali, nessuno più conosceva i piani per l’emergenza e oltre mille persone morirono, lì in America.

Sciacalli e bounty killer. Subito dopo il terremoto, come primo atto di decenza, – scrive Francesco Merlo – il Viceré di Sicilia Giovan Francesco Paceco, duca di Uzeda, esibiva i corpi penzolanti degli sciacalli che faceva impiccare”. Poi il bravo giornalista di repubblica, specialista nel puntare qualcuno e dirne tutto il male possibile, accusa Salvini, che “va in tv con i doposcì e lucra contrapponendo i terremotati ai presunti agi dei migranti” e con Grillo, “i cui ingegneri avrebbero approntato un rimedio preventivo contro la legge di gravità”. Per Merlo, che sa di greco e di latino, “gli sciacalli sono sempre alla ricerca degli untori che hanno venduto licenze, o gonfiato gli appalti. E c’è il super untore che è lo Stato, cattivo per definizione. La colpa vera è sempre sua, come nella psicanalisi è sempre di Edipo e di Laio”. Chi non parla di “imponderabile” e conta le vittime invece di gioire per i vivi è dunque uno sciacallo e meriterebbe, se non proprio l’impiccagione almeno di “disvelarne la cinica intenzione, la lingua biforcuta da serpente diabolico, da nemico dell’umanità sofferente”.

1 novembre 1755. Due secoli e mezzo fa Lisbona fu distrutta da un terremoto e da un maremoto. Colpito, Voltaire scrisse un poema in cui accusava “la natura che porta sofferenza”, prendeva le distanze dallo “ottimismo metafisico di Leibniz”, ridicolizzava quei cattolici che parlano “di un dio sempre buono”. Rousseau gli rispose con una lettera: “Non vedo come si possa ricercare l’origine del male morale se non nell’uomo libero, progredito e di conseguenza corrotto”. Per restare nel vostro tema, e cioè Lisbona, dovete, ad esempio, convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato molto minore, e forse non vi sarebbe stato”. Da quella polemica prese le mosse Immanuel Kant per separare la sfera della natura e quella dell’umana responsabilità: “Noi abitiamo tranquilli su un suolo le cui fondamenta vengono di tanto in tanto scosse. Edifichiamo senza darci troppo pensiero su volte le cui colonne talvolta vacillano minacciando di crollare”. Ora io oggi non avrei scelto il titolo proposto da Travaglio: “Amatrice, gli sfollati sorteggiati per le casette che non esistono”, né quello del Giornale di Sallusti “Dio e i pompieri più forti dello stato”. E tuttavia difendo il diritto di critica.

Trasferiamo al popolo il potere di Washington. El Pais titola così sull’insediamento di Trump. E anche Repubblica, a pagina 10, cita la stessa frase: “Da oggi il potere torna agli americani”. Il punto è quali americani? Non quelli che hanno disturbato la manifestazione di investitura (se non mi sbaglio è la prima volta che accade) e sono stati subito gratificati dall’epiteto di black bloc. Neppure quel 56% che – secondo i sondaggi – a domanda risponde di non gradire il 45esimo Presidente degli Stati Uniti. L’America first di Donald Trump è tuttora un’incognita, sottolinea il New York Times. Ne sapremo di più quando potremo valutare i primi atti del nuovo governo. L’America innalzerà barriere commerciali contro la penetrazione di merci e capitali cinesi, sfidando le prevedibili ritorsioni? Abbraccerà Vladimir Putin mentre pugnala Angela Merkel? Dirà ai blue collar: “bene, ora che il potere è tornato agli americani, voi operai tornate pure nelle fabbriche che rientrano in patria, ma fatevi bastare il salario ridotto (e senza garanzie) che negli ultimi tempi spuntavate come camerieri e facchini? Sosterrà banche e finanze, creando una nuova gigantesca bolla di debiti non esigibili? Se l’Europa volesse darsi un senso, dovrebbe attendere Donald alla prova e intanto rafforzare il proprio welfare, riunirsi con una politica fiscale equa e solidale, aprire con prudenza a Putin e potenziare l’interscambio con la Cina. Tutto, meno che rimpiangere le magnifiche sorti e progressive della terza via, quando governavano contemporaneamente (correva l’anno 2000) Clinton, Blair, Schröder, Jospin e D’Alema. E costoro credevano che la globalizzazione finanziaria gli avrebbe dato l’opportunità di governare molto a lungo, grazie al baratto tra i (vecchi) diritti del lavoro con quelli (nuovi) del cittadino consumatore.

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