Il No avanza, sostiene Repubblica. Di quanto? “Avanti di 8 punti”, dice la Stampa. “Arriva al 55 per cento”, sentenzia il Corriere che però aggiunge “Ma più di un votante su 10 è indeciso”. Vediamo. Nando Pagnoncelli: 55% No, 45% Sì. Addirittura 10 punti di scarto. E al 13% di quanto agli indecisi, parrebbe che siano più disposti a cambiare intenzione di voto gli elettori del Sì che quelli del No. Ilvo Diamanti: 41% per il No, 34% per il Sì. Il sondaggio di Repubblica vede ancora un mare di indecisi, il 25% cioè un quarto degli intervistati. Tuttavia segnala una tendenza piuttosto netta: da settembre il Sì avrebbe perso 5 punti, il No ne avrebbe guadagnato 10. L’onnipresente campagna “bastaunsì” avrebbe irritato un numero non trascurabile di elettori. E infatti Repubblica ammette: “l’attivismo del premier non inverte la tendenza”. Nicola Piepoli: No 54%, Sì 46%. 8 punti di vantaggio. Anche per questo sondaggio il 24% degli intervistati non avrebbe ancora deciso. “Non meno di due italiani su tre – scrive Piepoli – voteranno di pancia, quasi che il referendum fosse pro o contro l’attuale presidente del Consiglio”. Ma no?! Ecco che Altan disegna un chirurgo, serafico e rotondetto che sentenzia: “Dal referto del voto capiremo come funziona la pancia degli italiani”.

E dopo? “Mai un governo di scopo o un governicchio, non sono uno che se ne starà lì a vivacchiare”, dice Renzi. Excusatio non petita, una forma di scongiuro, un modo per convincersi che saprà resistere – lui, rottamatore immaginario – alla tentazione di restarsene a Palazzo Chigi per gestire il vertice europeo dei 60 anni dai trattati di Roma, per provare a cucire una nuova legge elettorale condivisa, per far fronte ai contraccolpi sui conti dello stato della sua irresponsabile politica di mance, sgravi e bonus elettorali, che l’anno prossimo presenterà il conto. Sia che vinca il No, sia che vinca il Sì, credo che il proseguo della legislatura sarà tutt’altro che un vivacchiare. Qualora vincesse, Renzi vorrebbe comunque cambiare comunque l’Italicum, perché ormai sa che al ballottaggio vincerebbero i 5 Stelle. Se la Yellen, come ha ha fatto intendere ieri, dovesse aumentare il tasso della Fed, in Italia lo spread monterebbe ben oltre i 181 punti attuali, infine il segretario del Pd dovrebbe valutare le conseguenze (con una nuova legge elettorale) del regolamento di conti (che agogna) con la sua minoranza interna. Se invece vincesse il No e Renzi trovasse la forza di lasciare Palazzo Chigi, forse proverebbe a trasformare definitivamente il Pd nel suo partito personale, ma vedrebbe molti, forse troppi, dei suoi ex alleati che lo abbandonano per cercare intese trasversali sulla legge proporzionale e persino per varare una onesta riforma costituzionale. L’alternativa: “o me o la palude”, funziona in un talk show ma non potrebbe essere più bugiarda. Dopo due anni e mezzo di crociata renziana, tornerà la politica. Questo è certo.

Il boss de Luca: “Bindi va uccisa. Io voglio i soldi, me ne fotto del Sì”. Titolo del Fatto Quotidiano. Mentre altrove – ieri sera a Linea Notte, per esempio – si giustifica il povero De Luca in nome della critica post trumpiana al politicamente corretto. In fondo sono “chiacchiere da bar”, si dice. Quel suo parlare “rugoso ma autentico” è la cifra del successo elettorale del governatore. Boh, due pesi e due misure. Quando accennai a una possibile subalternità politica del premier alla sua Ministra per i rapporti con il Parlamento, fui lapidato su tutti i giornali. Il punto, però, è un altro: quando si usa il linguaggio di De Luca – “infame, da ucciderla!” ha detto, facendo la faccia feroce a favore di telecamera – , e lo si usa in Sicilia o in Campania, è chiarissimo che si vogliono pescare voti di mafia o di camorra. Che si ciancia come loro, per nuotare come un pesce in quello stagno. “Impresentabile!”

Un dollaro per un euro. Siano quasi alla parità e la Yellen, prende per tempo le misure al nuovo piano di investimenti promesso da Trump – mille miliardi in infrastrutture – annunciando l’aumento dei tassi. Ma chiede al Presidente eletto di non cambiare la Dodd-Frank, firmata da Obama nel 2010, che vieta alle banche commerciali di usare i depositi dei clienti per speculare sui mercati finanziari. Workers of Walmart uniting, con questo titolo che riecheggia Marx, il New York Times racconta ai suoi lettori la lotta di classe di ritorno in Cina, con il Partito Comunista al potere che fa di tutto per non trovarsi davanti un movimento nazionale di lavoratori ma è intanto costretto a frenare la locomotiva per correggere le distorsioni dello sviluppo e perfino a reintrodurre la parola “compagno” (caduta in disuso da un quarto di secolo) nei rapporti tra gli iscritti. Se 7 dollari vi sembran troppi. Contro la corruzione e le contrattazioni in nero, il premier indiano Modi ha messo fuori corso le banconote di 1000 e di 500 rupie, quest’ultima del valore di 7 dollari e 40 cent. Provocando il caos, code interminabili davanti alle banche, famiglie che non possono più comprare e negozi che non vendono. Chi è più Trump di me? Domenica l’ex partito di De Gaulle vota per il primo turno delle primarie. I candidati più forti sono Alain Juppè, accreditato di un 36%, Nicolas Sarkozy, 29%, e François Fillon, 22%. Sarkò vuol togliere alla Le Pen l’aurea di rappresentante francese di Trump. Si presenta come il capo dell’anti politica, pur avendo trascorso e vissuto 5 anni all’Eliseo. Se dovesse prevalere, spianerebbe la strada alla Le Pen, perché gli elettori di sinistra, pur senza un loro candidato al secondo turno, non riuscirebbero mai a votare per lui. E sarebbe la fine della Quinta Repubblica.

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