Querele temerarie. Sono quelle che affaristi, politici corrotti, imprenditori con la coda di paglia, annunciano per intimidire i giornalisti. Somiglia a una querela temeraria quella presentata ieri in questura contro Rosy Bindi dal presidente eletto della Campania. “Inserendomi nella lista detta degli “impresentabili” – questa è la tesi del neo governatore sotto minaccia di sospensione – la presidente dell’antimafia mi ha diffamato, ha attentato ai miei diritti costituzionali, ha commesso abuso d’ufficio”. Tesi risibile. Infatti ancorché De Luca abbia (e gli fa onore) rinunciato alla prescrizione, su di lui pende comunque un procedimento giudiziario per corruzione continuata, reato per il quale il codice antimafia (sottoscritto dal PD) prevede la non candidabilità. Bindi non poteva non inserirlo nella lista. Che poi codici e liste servano  davvero a qualcosa, questa è tutta un’altra storia. Dunque iniziativa giuridicamente risibile, quella di De Luca, e politicamente di dubbio gusto. “Pd, lo scontro arriva in tribunale”, Corriere. “Vogliono arrestare la Bindi”, Giornale. “Nel Pd ora è guerra di denunce”, Stampa

 

Una norma ad personam. È questo – secondo il Fatto – che De Luca pretende da Renzi. Perciò gli tira la giacca. E trova alleati fra coloro, come Orfini e, curiosamente, anche Cantone, che vorrebbero attribuire la sconfitta elettorale di domenica – due milioni di voti in meno, le candidate renziane Paita e Moretti asfaltate – a chi avrebbe non lasciato lavorare il giovane premier, alla “minoranza” dei gufi. Il gioco è troppo scoperto. Ecco come Stefano Folli, Repubblica, riassume il messaggio di De Luca al premier: “intendo restare al mio posto per tutto il tempo necessario, forzando per quanto è possibile i limiti della legge Severino, e mi aspetto il massimo sostegno dal governo e dal mio partito”. Simmetrico e contrario il messaggio al premier del ministro Orlando: “La suggestione del partito della nazione mi pare superata da queste elezioni. Oggi l’obiettivo – dice al Corriere – è costruire un grande soggetto riformista del centrosinistra”. Non so se Orlando se ne renda conto, ma sta chiedendo a Renzi di rinunciare alle riforme, troppo autoritarie e centrate sulla delega al governo, di cedere la macchina del partito (a Barca?), di rinunciare allo storytelling del leader invincibile che governa da solo, coadiuvato da governatori e sindaci.

 

L’italicum fa acqua. Scusate la superbia, peccato – lo so – gravissimo, ma me la rido leggendo con gusto Ceccanti (ieri) e D’Alimonte (oggi). Questi chierici, in preda al demone del potere, si affannano a dire che la legge elettorale favorirà il confronto al centro tra una destra e una sinistra moderate. Quando i dati, e non solo la logica, dimostrano il contrario. Senza contrappesi, senza la possibilità di coalizzarsi tra primo e secondo turno, l’elezione del premier e l’attribuzione del premio di maggioranza vedranno, al ballottaggio, uno scontro sistema – antisistema. Renzi versus Di Maio. O Salvini contro Renzi. Hanno costruito un mostro – l’Italicum -, che non c’è in nessuna democrazia liberale. Perché volevano mettere al sicuro le magnifiche sorti e progressive del loro mentore. Ora piangono lacrime di coccodrillo, si affannano, si scompongono perché vedono la corona del sindaco d’Italia insidiata dai barbari.

 

Grecia. “I creditori si uniscono per salvare il salvabile”, si potrebbe tradurre così il titolo del Financial Times. “Merkel e Hollande fanno pressioni per strappare un accordo”, Le Monde. E il Sole vede effetti interessanti per i mercati: “Grecia e inflazione spingono euro e rendimenti dei bond”. Insomma, inutile gesticolare troppo: la Grecia non pagherà – perché non può farlo – parte del suo debito. L’Europa ha un interesse vitale a concedergli ancora credito. La battaglia è stata – ed è – tutta politica: il tentativo di umiliare Tsipras e Varoufakis, di indebolirli, di costringerli a contraddire, almeno in parte, gli impegni con gli elettori. Perché nessun altro in Europa osi alzare la testa

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