Torna il caffè, dopo due giorni di silenzio. L’altro ieri, impegnato a seguire per Left le primarie nello stato di New York, mi ero semplicemente dimenticato di scriverlo. Ieri mi sono chiesto come mai me ne fossi dimenticato e ho preferito riflettere, piuttosto che scrivere. Torna il caffè, ma con una formula che forse troverete più “soggettiva”. Perché i giornali mi sembrano ormai del tutto coinvolti dalla crisi delle classi dirigenti, le scelte quotidiane – prime pagine, titoli, commenti – mi appaiono meno pensate e a volte casuali: mi pare non abbia più senso inseguire un pensiero che non c’è. Inoltre la mia visione del mondo – weltanschauung, se preferite – non è più così originale e minoritaria come un tempo. Vive in quelli che Paolo Franchi chiama, oggi per il Corriere, tentativi “sporchi” di organizzare una sinistra – da Sanders a Corbyn a Iglesias -, echeggia in certe proposte del capitalismo più innovativo, si fa strada persino in qualche università. Perciò vale meno la spesa che fare i conti, tutti i giorni, con le sciocchezze – luoghi comuni e tabù – di un pensiero dominante, sempre meno dominante.

Draghi o Merkel? Repubblica, Stampa e Sole24Ore lodano la chiarezza con cui Mario Draghi ha detto, ieri, che a lui tocca occuparsi della stabilità dei prezzi in Europa – perché questo gli impongono i trattati – e non dell’interesse nazionale germanico. Di conseguenza la BCE continuerà a stampare carta moneta finché l’inflazione non tornerà al livello, ritenuto accettabile, del 2%. Presa in castagna – l’autonomia assoluta della banca centrale è stata voluta dalla Germania per evitare ingerenze di paesi meno virtuosi come Francia e Italia – Angela Merkel non ha potuto che abbozzare, ma si è chiesta se la cura Draghi stia funzionando. “Ha evitato il disastro”, ma non funziona più, risponde Romano Prodi, intervistato dal Corriere. Perché “la BCE ha finito le munizioni”, spiega. Dunque, dopo aver superato a fatica la Lunga Recessione, ora rischiamo di finire in bocca a una “stagnazione secolare”. The question è dove stia andando il capitalismo e come debbano cercare di indirizzarlo (non solo le banche centrali ma anche) gli Stati, con le loro politiche economiche e industriali. I tedeschi qualche idea ce l’hanno. Salari relativamente bassi, investimenti pubblici e privati indirizzati verso “la cosiddetta «industria 4.0» – la citazione è di Mario Deaglio della Stampa -, industria 4.0 che si sostanzia in “un uso accentuato dell’elettronica e della robotizzazione e che porterà a una forte riduzione dei posti di lavoro nei settori manifatturieri”. In tale schema, il benessere del ceto medio e il consenso politico, vengono affidati al risparmio che dunque la Germania non vuole sia punito da tassi troppo bassi. Il punto è che tale “ricetta” non può funzionare né in Francia né in Italia. Parigi ha salvato l’essenziale della sua industria ma non ha i capitali per riconvertirla, Roma non può permettersi – per via del debito – tassi crescenti, né è politicamente in grado di ridurre la spesa. Allora Draghi? Sì, ma se non crediamo possibile che la leva finanziaria induca una ripresa davvero robusta e duratura, ha ragione Prodi: scopriremo che le cartucce BCE sono bagnate.

Giulio Regeni nella faida dei servizi segreti. Il Fatto intervista un leader, scappato all’estero, dei Fratelli Musulmani. Costui disegna lo scenario di una crisi finale del regime militare in Egitto. Giulio, che è stato arrestato dalla polizia – e questo sembra confermato – sarebbe finito prima nelle mani della National Security, servizio segreto che, fra l’altro, considera Hamas responsabile dell’uccisione del Procuratore della Repubblica del Cairo incaricato del processo ai Fratelli Musulmani. Torturato, l’italiano sarebbe stato passato alla Military Intelligence, servizio da cui viene lo stesso al Sisi. E da costoro di nuovo torturato fino a morirne. A questo punto la General Intelligence, la sola che controlla le intercettazioni, ha preso a usare il caso Regeni contro il generale presidente al Sisi, considerando quest’ultimo un uomo inetto e pericoloso. Alla domanda: perché Giulio? L’intervistato risponde: “perché straniero”. L’eco del crimine in Europa consente ai vari servizi segreti di minacciare e ricattare, tanto meglio in quanto si suggerisce la verità ma senza darne le prove. In secondo luogo perché Giulio si occupava dei sindacati, che in Egitto sono forti, talvolta corrotti, ma sempre strumento di lotta politica e organizzatori del consenso. Questione, questa, vitale per le varie fazioni militari. Dietro l’uso del caso Regeni potrebbe persino nascondersi il contrasto tra chi vuol mettere l’Egitto nelle mani dell’Arabia Saudita e chi no. La difficoltà di conciliare affari e contratti con le multinazionali, che arricchiscono i militari, con il controllo, politico, sulla masse impoverite ed esasperate.

Nelle urne, Berlusconi o Renzi? Gli ultimi sondaggi sembrano dire che il candidato di Berlusconi e delle destre unite, Parisi, supererebbe a Milano, Sala, voluto da Renzi. A Roma, invece, la Meloni, appoggiata da Salvini, se la vedrebbe al secondo turno con la grillina Raggi, lasciando al palo il “democratico” Giachetti. Berlusconi ha tutto l’interesse di vincere a Milano e di sperare che a Roma Bertolaso e Marchini tolgano voti alla Meloni, promuovendo al ballottaggio il candidato renziano. In questo scenario – Parisi sindaco di Milano, Giachetti battuto a Roma dai 5Stelle e De Magistris che vince a Napoli -, Berlusconi tornerebbe ad apparire leader alternativo all’attuale premier. Perciò darebbe “un aiutino” a Renzi-Giachetti, sia per coltivare le sue ambizioni sia per assicurarsi la benevolenza del governo sui suoi affari. A Milano, un Pisapia preoccupato moltiplica gli attacchi contro Basilio Rizzo, candidato della sinistra, nella speranza che il manager Sala alla fine prevalga sul manager Parisi, lasciando così aperto uno straccio di dialogo tra Pd renziano e sinistra “di governo”.

Rubano senza più vergogna. Pier Camillo Davigo, consigliere di cassazione e presidente dell’associazione magistrati, tesse per il Corriere, una sorta di elogio dell’ipocrisia. La quale, per dirla con Rochefoucauld, è dopotutto un “omaggio che il vizio rende alla virtù”. Al tempo di mani pulite, spiega Davigo – che del pool fece parte – i politici, da Craxi a Forlani a Tanassi, fingevano di stupirsi delle ruberie e provavano a negare di esserne responsabili. Oggi invece “Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: “Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti». C’è molto di vero in quel che dice Davigo. E la teoria renziana – prima di tutto salviamo il paese dall’immobilismo – è la foglia di fico dietro cui si cela questa banalizzazione del traffico di influenza, delle cordate e persino della corruzione. La quale ultima, per poter essere riconosciuta e sancita politicamente, dovrebbe arrivare alla condanna in terzo grado, cosa quasi impossibile grazie alla tagliola della prescrizione. Davigo ammette che mani pulite fu una rivoluzione mancata, perché non basta il contrasto giudiziario per vincere la corruzione. É quello che penso anch’io: mafie e corruzione, evasione ed elusione, rendono impossibile una redistribuzione equa delle risorse e un modello di consumi e di investimenti che ci faccia uscire dalla tenaglia crisi-stagnazione. Il contrasto di tali fenomeni è innanzitutto compito politico, la vera priorità per un buon governo. Se si lascia la battaglia ai giudici, l’Idra dalle molte teste continuerà a riprodursi.

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