Ha ragione D’Alema. “Non esiste uno schieramento politico del No mentre esiste un blocco politico del Sì, il cosiddetto Partito della Nazione, uno schieramento abbastanza minaccioso che va dalla maggioranza di governo ai poteri forti. Capita di avvertire un clima di paura e intimidazione per il quale chi non è d’accordo si deve sentire colpevole di spingere il Paese verso il baratro”. La cosa si può dire in modo assai più garbato, come fa oggi su Repubblica, Stefano Folli: “Il partito di Renzi non è ancora nato, ma prenderà forma nelle prossime settimane se si realizzano alcune circostanze in contemporanea: il successo del Sì, un ruolo determinante in tale risultato del mondo moderato, la disfatta della sinistra interna ed esterna al Pd, il contenimento dei Cinque Stelle a cui il premier sta cercando di sottrarre il monopolio del populismo anti-casta. Il progetto è molto ambizioso e i suoi contorni ormai sono visibili. La posta in gioco è l’egemonia politica per una ventina d’anni, isolando da un lato il ceto politico della vecchia sinistra e dall’altro l’estremismo leghista”. O in modo aulico, come fa Massimo Giannini: “La narrazione renziana, oggi più che mai, non contempla il dubbio, ma solo una cieca fiducia nel narratore, che riassume in sé tutto quello che serve (la falce della rottamazione, il martello della modernizzazione) e tutto quello che non serve più (l’identità della sinistra novecentesca, la ritualità della democrazia “bicamerale”).

Rispetto prima e dopo il voto. Il richiamo che si vorrebbe equidistante di Mattarella con cui il Corriere apre la sua prima pagina, appare del tutto inadeguato davanti al significato di svolta “storica” che Matteo Renzi dà ogni giorno di più al voto del 4 dicembre. Alle strette per il carattere assai deludente della ripresa, preoccupato perché il suo partito ha perduto due elezioni amministrative consecutive, il premier segretario sta infatti rilanciando, sta promettendo di mandare in pensione l’intera classe dirigente del paese, politici e burocrati, magistrati e giornalisti e di sostituirli con le Boschi e di Del Debbio, con i Calenda, i Gutgeld, i Carrai. Un nuovo blocco sociale, composto da amministratori de-ideologizzati e da imprenditori che intendono fare “sistema”, e perciò auspicano un governo mediatore d’affari. Un blocco nel quale trova spazio il sindacalismo alla Furlan, che sostiene la contrattazione decentrata, i bonus e gli sgravi come unica forma di (modesta) redistribuzione. Una operazione benedetta da JP Morgan e da altre banche d’affari e che vantano garanti come Marchionne e Confalonieri. E tuttavia un progetto che può coinvolgere anche qualche sessantottino, talmente stufo dei contorcimenti delle sinistre (malamente hegeliane) da voler rifluire dentro un solco scientista e positivista, per cui alla fine persino Clinton e Renzi possono apparire progressisti se confrontati al luddismo, al populismo, alla demonizzazione di ogni innovazione, e a un costituzionalismo caricaturale e immobilista.

Matteo Renzi e Carlo Luigi Napoleone Bonaparte. Non ho paragonato il primo al secondo solo per rubare la gustosissima parodia che Victor Hugo fece di Napoleon le petit. L’idea comune è che la Francia del XIX, come l’Italia del XXI secolo, potessero (o possano) andare incontro a uno sviluppo fastoso, nelle scienze, nelle arti e persino nelle condizioni di vita, se saldamente guidate dalla borghesia ma non dalla politica della borghesia. L’uno e l’altro auspicano l’elezione diretta del capo del governo (fu a suffragio universale maschile già quella di Napoleone). L’uno e l’altro si considerano il demiurgo della trasformazione. Le differenze sono tuttavia due, e di taglia. La prima è che la quarta rivoluzione industriale, con i suoi robot e le intelligenze artificiali, non sembra poter trascinare le nazioni verso un balzo in avanti progressista come seppero fare lo sviluppo della ferrovia e delle grandi imprese nella seconda metà dell’800. La seconda è che il francese poteva sfruttare il mito di Napoleone, sconfitto alla fine ma solo dopo aver creato uno stato, un esercito e una burocrazia moderni e aver imposto il suo mito all’Europa. I predecessori dell’italiano non hanno invece avuto fortuna. Berlusconi finito agli arresti ed espulso dal Senato, Craxi esule ad Hammamet, Mussolini addirittura a testa in giù dopo una guerra rovinosa.

Manovra, mancano ancora 7 miliardi. “Il numero – scrive la Stampa – è in fondo alla tabella presentata ieri da Pier Carlo Padoan alla Camera. È sotto la voce “ulteriori coperture”: sette miliardi e 250 milioni sui quali il governo deve prendere una decisione entro sabato, quando il Consiglio dei ministri approverà la bozza di manovra per il 2017. È poco più della differenza fra il 2 per cento di deficit indicato nel Documento di economia e finanza e il 2,4 chiesto alla Commissione”. Matteo Renzi sa bene che le sue caramelle elettorali sono tutte dentro questo differenziale tra il deficit che il nostro governo chiede e quel che l’Europa sembra disposta a concedere. La frase di Habermas – ma questi benedetti ghostwriter non lo capiscono che facendogli citare di tutto finiscono con il rivelare la sua ignoranza? – sul “frenetico immobilismo” dell’Europa non è stata calata a caso, ma per segnalare alla Merkel e a Hollande che il nostro ha deciso di fare l’americano, a costo di sfasciare l’Europa.

Scalfari versus Zagrebelsky. Il primo sostiene che la democrazia è per sua vocazione governo dei migliori e quindi oligarchia. Il secondo risponde che le oligarchie si definiscono storicamente a seconda del censo, e sono perciò alla fine conservative e non democratiche. Ma di cosa scrivono? Dove si nascondono queste oligarchie disposte a prendere il potere per guidare l’Italia? Nelle direzioni di quali giornali, alla Bocconi, alla Luiss, nel board di Bankitalia? L’unica oligarchia (governo dei pochi) che vedo è quella della finanza globale. È una casta di senza nomi, la cui funzione è quella di distribuire dividendi con il denaro che si accumula tosando come pecore risparmiatori e incauti (e spesso inconsapevoli) investitori in borsa. La politica, quasi dappertutto, mi sembra alla ricerca di un capo: Putin, Erdogan, Trump, Renzi. E per rivedere una oligarchia (nel senso auspicato da Scalfari) sia che si tratti dei Mosca e dei Pareto, o di Adriano Olivetti e Bruno Trentin, bisognerebbe riprendere a discutere, seriamente, animatamente. Dire cosa si vorrebbe fare e come si potrebbe fare. Dividersi, scontrarsi, far politica. Non tifare pro o contro il Napoleone di turno.

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