Salah sceglie di collaborare, titola la Stampa. Il meno che si possa dire è che il kamikaze-renitente ha avuto tutto il tempo per maturare tale “scelta”. Il quotidiano belga Le soir, per esempio, aveva anticipato già a gennaio che l’avvocato Sven Mary era in contatto con il fratello. L’altro ieri, poi, Salah è parso sollevato quando gli hanno messo le manette. Immediatamente si è appalesato Mary, l’avvocato: “il mio cliente è pronto a dire tutto agli inquirenti, ma a condizione che non venga estradato”. Tutto? “Dovevo farmi esplodere allo stade de france ma ci ho ripensato”. Salah Abdeslam ammette, dunque, di essere stato a Parigi quel 13 novembre – e come potrebbe negarlo? – ma sostiene che il suo pentimento si è compiuto subito, non appena il commando non è riuscito a entrare nello stadio, prima della folle corsa per le vie di Parigi, prima del tiro a segno contro le terrazze dei caffè e prima del Bataclan. Se Salah restasse a Bruges, se fosse giudicato dai giudici belgi, potrebbe mettere su un piatto della bilancia la sua “collaborazione”, sull’altro l’intenzione di farsi esplodere subito rientrata. Se invece Hollande “pretendesse” la sua estradizione, tutto sarebbe diverso. Parigi è ferita; per le famiglie delle vittime Salah era amico e complice di chi ha compiuto il massacro del Bataclan. Vedremo. Odio – lo sapete – la dietrologia, ma se la Francia lasciasse al Belgio questo petit voyou, allora mi autorizzerei a sospettare che Abdeslam abbia vuotato il sacco già a novembre e che, solo dopo averlo spremuto, les Renseignements généraux (i servizi segreti francesi) lo abbiano rimesso a Molembeek, per il sollievo dei belgi che l’hanno arrestato e per accreditare la tesi del pentito: avrei voluto ammazzare ma non l’ho fatto.

7 milioni di euro e un ben servito: l’amministratore delegato Marco Patuano lascia Telecom, probabilmente, nelle mani di Vivendi e del francese Bolloré. Si annuncia, meglio, si lascia immaginare, una grande concentrazione italo-francese, telefono e rete dati, prodotti sul web e televisivi, che forse toccherà almeno in parte anche il gruppo Berlusconi. Matteo Renzi si siederà al tavolo, favorirà la nascita del nuovo cartello. Per carità, a fin di bene, perché il governo – nella concezione di Renzi, l’Italia – possa dire la sua. Vi segnalo un libro appena uscito per chiare lettere: “Lo Stato Parallelo”, “Inchiesta sull’Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari e nuove guerre”. Non c’entra niente, direte! Lo so, ma gli autori, Andrea Greco e Giuseppe Oddo, ripescano la frase detta in Tv da Renzi, secondo cui in Italia l’intelligence (la raccolta di dati sensibili), la gestisce da tempo il colosso del petrolio. Ed è giusto così. Credo che questa attitudine del premier verso i poteri, Telecom, Eni, Mediaset, costituisca la vera innovazione, il valore aggiunto che ha portato, dopo la rottamazione. Lo sforzo di ridare ordine al capitalismo, favorendo l’emergere un super potere economico, in grado di influenzare vita e futuro dei cittadini, politica estera e attività di controllo interno: credo che sia questa la cifra del riformismo renziano. Un super potere, però, che dialoghi con “la politica”, e metta il capo del governo – questo capo del governo, tutto politico – al centro di ogni gioco. Anche a questo serve, in fondo, la semplificazione della democrazia – riforma costituzionale e italicum -, a razionalizzare la rete dei poteri, a costruire nuovi decisori, privati e di governo. Non tutto va sempre per il verso giusto. Il papà della Boschi – scrivono oggi i giornali – finisce sotto inchiesta per bancarotta. Secondo il Fatto, “Renzi è agli ordini delle banche”. Perché concede loro di usare, a danno dei clienti, gli interessi di mora, di ridurre i tempi per pignorare gli immobili in garanzia, perché concede sconti fiscali ai grandi gruppi e difende la fusione BPM Banco popolare dalle preoccupazioni della BCE. Personalmente non penso che il premier prenda ordini, piuttosto che voglia mettere il naso in ogni rete di potere.

C’è poca vita a sinistra, firmato Nando Pagnoncelli. Il sondaggio del Corriere certifica che tra gli elettori del Pd solo uno su 10 crede che si sarà una scissione. Se si votasse, tra il Partito di Renzi e il Movimento 5 Stelle, resterebbe uno spazio elettorale comunque inferiore al 9%. Alla domanda: “potrebbe nascere una forza che unisce formazioni di sinistra, come Sel e Rifondazione, i fuorusciti del Pd, con l’appoggio di Cgil e Fiom. Pensa che possa avere successo elettorale?”, il 32% dice che “sarebbe un flop” e il 31 che otterrebbe “poco più dei voti che la sinistra ha già” (Rivoluzione Civile, la lista con Ingroia, prese alle politiche il 2,3%) La simpatia con cui gli elettori guardano a un nuovo partito del genere si sarebbe dimezzata in un anno, passando dal 12 al 6%. A me tutto ciò non sembra strano. Non dico che sia proprio così, ma che non lo trovo strano. Perché l’area tra Renzi e Grillo appare agli italiani residuale, non influente, uno spazio solo elettorale che farà sopravvive un apparato di sinistra, ma non cambierà le cose. Penso che un nuovo soggetto non possa nascere se non si propone di far saltare il banco, Partito di Renzi e Movimento 5 Stelle. Difficile, certo. E se guardo alla crisi di Podemos, con lo scontro tra il numero uno Iglesias e il numero due Errejon, sono indotto a concludere che non servano scorciatoie movimentiste, né l’affermazione di modi nuovi (quali?) di far politica e nemmeno che serva gettare alle ortiche la parola “sinistra” per essere sempre oltre. Al tempo stesso penso – credo di vedere – che sia forte, e che cresca, il bisogno di rompere il gioco, di non consegnare il nostro futuro di democratici, di illuministi, di amanti dei diritti, di gente che si rivolta contro l’ingiustizia sociale e contro la discriminazione, alla rappresentanza esclusiva delle Hilary Clinton, dei Manuell Valls o Matteo Renzi, personalità amate dagli apparati del potere e non sgradite “ai mercati”, cioè alla grande finanza. Bisogna pensare in grande e non chiudersi nello scantinato.

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