Grillo torna capo dei 5 stelle, titolo del Corriere. “Ricreazione finita. Ridimensionati i «cinque ragazzi», Beppe Grillo li ha chiamati così, del Direttorio. Il leader torna anche formalmente lui. E si riafferma un modello di potere più verticale che mai.” È l’incipit del commento di Massimo Franco, che spiega come “l’icona concorde del M5S si sia spezzata quando dai proclami dell’opposizione il Movimento è passato alla realtà del governo”. Quanto a me, già nei primi mesi del 2013, ebbi a scrivere che il fenomeno a 5 Stelle era il risultato di tre diverse componenti: a) La “pancia” da attore di Beppe Grillo che percepiva meglio di chiunque altro il sentire delle piazze, il malessere del ceto medio, la frustrazione dei giovani e la crisi delle ideologie di destra e di sinistra; b) Un gruppo dirigente giovane, reclutato in fretta nelle tante (e diverse) Italie della protesta, da quella radical ecologista, a quella di piccoli azionisti e risparmiatori, dalla disperazione degli operai che avendo perso il lavoro contestavano sindacati e partiti di sinistra, alla delusione delle piccole borghesie tradite dal sogno berlusconiano, alla rabbia delle periferie emarginate; c) Terzo elemento, la “visione”, secondo me l’illusione, di Gianroberto Casaleggio, secondo cui la Rete (e un’azienda che in rete ci sappia fare) rappresenterebbe la chiave per tenere insieme rappresentanti e cittadini, élites (in formazione) e popolo, risolvendo il problema – mai del tutto risolto – delle democrazie rappresentative e dei partiti di massa. Casaleggio è morto, i suoi motori di ricerca non hanno garantito il fondamento popolare delle scelte da compiere. Il peso della politica è caduto sui “bravi ragazzi”, che ci hanno messo tutto se stessi ma si sono divisi, perché diverse erano le esperienze e le culture dalle quali venivano. Ecco che il ritorno di Grillo è divenuto indispensabile. Il suo fiuto, insostituibile. Ma Beppe non è uno sciocco: sa di poter gestire la battaglia ma sa anche di non essere attrezzato per il governo.

DEF, il piano del governo: PIL all’1% e deficit al 2,3%. Se le cifre fornite da Repubblica in apertura sono vere, ben si comprende il senso della battaglia d’Europa intrapresa da Matteo Renzi. In primavera aveva concordato con Bruxelles un deficit dell’1,8% per il 2017, nella finanziaria intende chiudere i conti di previsione scontando uno 0,5% in più, tra i 7 e gli 8 miliardi di saldo negativo fra entrate e uscite. Naturalmente i ragionieri occhiuti che ci controllano esamineranno anche le altre cifre e le troveranno, non a torto, imbellettate. Secondo il governo, infatti, il PIL dovrebbe crescere dell’1,2% nel 2016 e dell’1% nel 2017; così il rapporto tra debito e prodotto interno lordo potrebbe restare immutato (ancorché altissimo) al 131%. Ma finora le stime della crescita si sono rivelate sempre eccessivamente ottimistiche e “il deficit sostanziale”, secondo il Sole24Ore, potrebbe salire ancora, attestandosi intorno al 2,5%. La riduzione delle tasse per tutti (Irpef) sarà, in ogni caso, rinviata, Padoan non chiederà all’Europa nuova “flessibilità”, perché quella porta è sbarrata, ma proverà a spiegare che le nuove cifre sono la conseguenza della mancata crescita e non di nuove misure di spesa. Un quadro per niente esaltante, mentre Scalfari sostiene, oggi su Repubblica, che alla ripresa servirebbe ben altro, e cioè tagliare il cuneo fiscale almeno di un terzo. Sottraendo all’Inps entrate per 80 miliardi, da recuperare con una patrimoniale a carico dei redditi sopra i 120mila euro lordi l’anno. Mi permetto di obiettare che quel ceto medio agiato (120mila euro lordi l’anno fanno poco più di 4mila euro netti al mese) non è ulteriormente tassabile se prima non si dimostra di saper colpire la grande evasione, l’imprenditoria che lavora in nero e il capitale criminale. Tutte cose che alcune anime belle continuano a chiedere, ma che il governo non fa o non sa come fare. Dunque la propaganda di regime cercherà di presentare alcuni mini bonus inseriti nella finanziaria come incentivo a una possibile inversione di tendenza e vanterà una funzione salvifica delle “riforme”, mentre le cannonate europee del premier copriranno il tutto con una densa cortina di fumo.

Guida a sinistra. Sì sa che gli inglesi guidano le auto a sinistra ma – scrive il manifesto – ora anche la guida della loro politica può spostarsi “a sinistra”. Corbyn sfiduciato dall’80% del gruppo parlamentare è stato rieletto alla guida del Labour, cioè scelto come candidato premier, dal 61,8% degli iscritti al partito. “Corbyn – dice a Repubblica il teorico della Terza Via, Anthony Giddens – riafferma il suo pieno controllo sul Labour. Ma oggi il Labour somiglia a una setta, a un movimento, più che a un partito aspirante a governare”. Perciò “rischia di scomparire”. E allora? “Sono convinto – continua Giddens – che Hillary Clinton, se sarà eletta presidente, avvierà un programma transnazionale coinvolgendo leader come Trudeau e Renzi. Il premier italiano può fare molto per rilanciare l’idea progressista”. Che posso dirvi? A me sembra che la Terza Via (di destra o di sinistra), considerando un tabù intoccabile potere, profitti e filosofia delle multinazionali e dei mercati, presentando se stessa come una tecnostruttura asettica che, che in quanto tale, sarebbe in grado di guidare la politica lontano dalle secche dei “populismi”, dalla protesta e dallo scontento dei popoli, si consegni senza rimedio a divenire “casta”. Donne e uomini che esercitano il potere traendone vantaggi. Per poi rientrare, quando lasciano l’incarico, al servizio delle multinazionali o della finanza offshore. È successo con Schröder e Barroso, con la commissaria alla concorrenza Neelie Kroes, forse succederà anche con il presidente dell’Unione Jean-Claude Juncker, già coinvolto nel Luxemburg Leaks. Ma così non si prendono voti e si allarga paurosamente la forbice tra governanti e governati. Molte idee della sinistra sono ancora quelle degli anni 70? Lo capisco e ciò mi preoccupa. Ma la speranza di Giddens è finita con Blair, a fianco di Bush.

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