Nuovi assessori, 5 stelle divisi. “Raggi fa le nomine ma è lite”. Corriere e Repubblica bocciano le scelte compiute infine dalla sindaca, rimasta sola sul tetto che scotta del Campidoglio. Assessore al bilancio: Andrea Mazzillo. Commercialista non troppo noto, candidato sfortunato alle elezioni per la squadra romana di Walter Veltroni, iscrittosi poi al “raggio magico”, tra i pasdaran della sindaca pentastellata. Sembra proprio un ripiego. Alle Partecipate: Massimo Colomban. Titolare di una ditta di costruzioni, già indipendentista veneto, agli inizi stregato dall’innovatore Renzi, favorevole all’alta velocità, ma anche amico e sostenitore di Gianroberto Casaleggio. Uno nessuno e centomila. Nomine che rappresentano bene l’identikit del nuovo che avanza: che non è poi così nuovo né si comprende bene in che direzione avanzi. E poi c’è il silenzio sull’assessora che resta, Paola Muraro. Nominata all’ambiente nonostante sia indagata per il suo coinvolgimento nella passata gestione dell’azienda rifiuti, nonostante sia stata legata all’ex direttore generale di quell’azienda, tale Fiscon, a sua volta coinvolto nell’inchiesta della Procura di Roma su “mafia capitale”.

Murano per ora resta: “Aspettiamo di leggere le carte – dice, al Fatto, Virginia Raggi – e poi non faremo sconti a nessuno“. Poi! Intanto ora la sindaca spiega la necessità di ricorrere a due attivisti interni al movimento (Mazzillo e Colomban) proprio per rompere l’assedio del malaffare, “abbiamo scelto due di noi per non tornare a mafia capitale”, dice sempre al Fatto. Dobbiamo meravigliarci di questa evidente modestia della navigazione pentastellata? Direi di no. Quella del movimento fondato da Grillo è la storia di una rivoluzione incompiuta, anzi congelata. Arrivati di colpo alla ribalta (terzo partito dopo il voto del 2013 e ago della bilancia tra destra e sinistra) i 5 Stelle hanno scelto di non allearsi, per mantenere la loro purezza o per proteggersi dalla loro inesperienza. E subito sono stati messi nel freezer. Per volontà di un Napolitano, risuscitato Presidente, che ha indotto un Pd debole e frastornato a stracciare le promesse di Bersani in campagna elettorale e a governare prima con Berlusconi poi con Alfano e Verdini. Larghe intese contro il barbaro alle porte (il presidente emerito paragonò l’antipolitica dei grillini al terrorismo anni 70, cioè alle brigate rosse). Con il mandato di cambiare la costituzione del 48 anziché la casta della seconda Repubblica.

Renzi versus Zagrebelsky, da Mentana che fa servizio pubblico. Il professorone e il rottamatore: match dispari. I giornali ne parlano come se fosse finito in pareggio: 1 – 1. “Sarà oligarchia”, “Lei offende gli italiani”. Non ho potuto vedere la partita, ma i messaggi ricevuti a caldo esprimevano piuttosto la delusione e la frustrazione dei partigiani del No. Quello che so è che Renzi si sta giocando la partita da par suo. Ha scelto di proporsi ancora come la soluzione di ogni male, vuole essere solo contro tutti perché ritiene che alla fine, tra lui e il resto che avanza, più elettori sceglieranno lui, persino parecchi che lo detestano. Uomo della nazione, libero da lacci costituzionali e da laccioli partitici, né di destra né di sinistra. Emulo di Mattei, il quale ebbe a dire “prendo i partiti come un taxi su cui salire per poi scenderne”. Poco convincente, direte, visto che la sua politica sta andando in pezzi? E molto pericoloso, perché è verosimile che un premier solitario resti ostaggio di lobbies e burocrazie? Può darsi. Ma il No, per mettersi al riparo dalla pubblicizzata riscossa renziana, dovrebbe almeno provare a indicare una prospettiva, cercare di ventilare la possibilità di un’intesa (fra destra, sinistra e cinque stelle) per cambiare le regole del gioco e salvare il principio della rappresentanza (siano gli elettori a scegliere gli eletti!), dovrebbe cominciare a indicare qualche idea semplice per gestire la contingenza economica, fino al voto politico.

Ieri sera ho preso parte a un confronto tra Sì e No (Andrea De Maria per il sì) organizzato a Bologna da Agorà e dal circolo 2 agosto. Un bel dibattito, civile. Con la platea post Pci e post Dc divisa a metà: chi tende a spiegare tutto con la contraddizione economica, a favore del No, chi preferisce dare la colpa delle sconfitte della sinistra alle istituzioni che avrebbero frenato l’alternanza, a favore del Sì. Come nella bibbia, rischiamo di trasformarci tutti in statue di sale. Una sinistra economicista o statalista, talvolta insieme sia economicista che statalista, non avrà futuro. Si capisce bene come chiunque sia nato con la crisi dei subprime (che ancora libera veleni, vedi Deutsche Bank), chi sa che lo sharing non è moda ma necessità, chi comprende che gli hacker non sono burloni e che la rete non è l’universo magico delle libertà ma un campo di battaglia, chi ha vent’anni e si interroga sul futuro…si senta e si tenga lontano da una tale sinistra che non si dà ragione delle proprie sconfitte.

Barack Obama si è tolto un sassolino. “Il popolo ebraico non è nato per governare un altro popolo”. “Non credo che Simon Peres fosse un ingenuo – ha aggiunto commemorandolo – Israele ha vinto tutte le guerre ma non quella maggiore: quella di non aver più bisogno di vincere”. Obama elogia Peres e condanna Bibi” (Netanyahu) titola il manifesto.

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