Torna l’Italia del sì. Quando ho sentito Matteo Renzi che lo diceva, tre foto mi hanno preso la mente. L’Italia in camicia nera che diceva sì a Mussolini, Eia,eia, alalà. L’Italia di Pio XXII, che portava in giro madonne pellegrine e scomunicava comunisti e braccianti del sindacato. L’Italia che saltellava al grido “chi non salta comunista è, è” lanciato da Berlusconi, sul palco con Fini e Casini. Amo un’altra Italia, quella di “chi vide sotto l’etereo padiglion rotare più mondi e il sole a irradiarli immoto”: era un toscano, nativo di Pisa. E di chi “temprando lo scettro ai regnatori, gli allor ne sfronda e alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue”: questi nacque addirittura a Firenze. L’Italia di Cesare Beccaria: “Dei delitti e delle pene”. Di Antonio Gramsci: “ mi piace essere l’acido corrosivo dell’imbecillità”. Di Vittorio Foa: “essere a sinistra vuol dire vivere oggi e contemporaneamente domani”.

Unicuique suum, scriveva Leonardo Sciascia. Nel lanciare la campagna per il referendum costituzionale d’autunno, “diecimila comitati per il sì” titola il Corriere, Matteo Renzi ha fatto una scelta di campo, innanzitutto linguistica. Una scelta causata dal timore di un confronto nel merito. “L’equivoco del plebiscito oscura la sostanza dei problemi”, chiosa Salvatore Settis su Repubblica. Sorretta dalla volontà di scavalcare l’esito – sia quel che sia – del voto amministrativo di giugno: “parziale ma importante verifica degli umori del paese”, scrive Massimo Franco sul Corriere. Scelta prevedibile e obbligata per chi, non avendo una visione del futuro, la sostituisce con la demonizzazione del passato: “dopo 63 governi ora si cambia!” Sì, la sua “democrazia recitativa”, come l’ha chiamata Rodotà, la semplificazione manichea – innovatori contro gufi, giovani contro vecchi professori – è già contenuto, è scelta di campo. Noi stiamo nell’altro campo, quello dell’Italia che non consegna il cervello all’ammasso, che non si piega al nuovo capo, che vuol vederci chiaro, capire e distinguere. Prima di decidere.

Si salva qualcosa della riforma Renzi Boschi? Settis indica due punti, sia pure marginali: “Aggiungere la trasparenza tra i requisiti dei pubblici uffici” – forse non era necessario cambiare la costituzione per questo, ma va bene – e “la restrizione del potere del governo di emanare decreti legge”, anche questo ci sta. Io ne aggiungo altri due: che una sola camera voti fiducia e leggi di bilancio (eravamo d’accordo tutti su questo e non serviva cambiare ben 47 articoli della costituzione) e la volontà di ridurre il numero dei parlamentari (anche se il progetto che noi gufi – Casson, Tocci, Mucchetti, Mineo -, 350 deputati e 150 senatori, avrebbe tagliato di più e meglio). Dall’altro lato della bilancia, tra le troppe aporie contenute nella legge, mi limito a dar conto oggi solo di quel che scrive di Settis: “avremo un senato i cui membri non rappresenteranno più la nazione, ma che avrà tra i suoi membri gli ex presidenti della repubblica: Ciampi e Napolitano a rappresentare “istanze locali”! Poi la scelta del Presidente della Repubblica: dopo il settimo scrutinio sarà eletto anche se dovessero votare solo in 20, tra deputati e senatori”. Commenta sconsolato l’archeologo e storico dell’arte: “Un Presidente eletto cosí, certo, non rappresenta la Nazione nemmeno quando è in carica, figurarsi da senatore a vita”. Addio alla sua alta funzione di garanzia.

Ecco s’avanza uno strano soldato… Giorgio Napolitano non ha lasciato solo Matteo Renzi nel momento del bisogno. In un’intervista al Corriere prima afferma che è “sbagliato personalizzare il refrendum”, subito dopo aggiunge che la scelta del premier si comprende perché “è in gioco il futuro del governo”. “Se a ottobre vince il No”, secondo il presidente emerito, “per le riforme è finita”. Perché il No riunisce tre anime impresentabili: “quella conservatrice, secondo cui la Costituzione è intoccabile”, “quella strumentale che colpisce la riforma per colpire Renzi, quella “dottrinaria e perfezionista dei 56 costituzionalisti che comporterebbe la paralisi definitiva e la sepoltura dell’idea di riforma della Costituzione”. Vien dall’oriente e non monta destrier, la guardia rossa ha parlato, con la prosopopea che usava nel 1919 ma senza più l’anelito di giustizia sociale che animava gli antichi comunisti. Cari lettori non c’è niente da fare: perduto il mito operaista, venuta meno la fede nel crollo imminente del sistema, dell’ideologia comunista resta ben poca cosa: una certa idea della supremazia del potere statale a cui tutto deve essere subordinato, la voglia di cambiare le regole della democrazia non potendo cambiare quelle del capitalismo. L’uomo che veniva da lontano per andare lontano, somiglia ahimè a un sopravvissuto con la sindrome di Stoccolma. Per le troppe utopie che lo circondavano un tempo e che ora disprezza e chiama “anti politica”. Napolitano oggi è questo. In modo forse più nobile, ma più contraddittorio, Pierluigi Bersani rivendica il Sì della minoranza alla riforma costituzionale, ma chiede a Renzi di non esagerare e non farne un plebiscito su se stesso. Insomma di non essere Renzi.

Maltrattati. Solo il manifesto parla del TTIP. Greenpeace ha svelato le pressioni (secretate) degli Stati Uniti per far ingoiare all’Europa lo strapotere delle multinazionali ai danni dell’ambiente, dell’agricoltura di prossimità e dei diritti dei lavoratori. Enrico Mentana, che ieri faceva il Mineo, ha detto che questa fuga di notizie farà saltare la ratifica del TTIP o la rinvierà a dopo le elezioni americane, quando tutto sarò diverso. Ma di questo nessun si cura, abbiamo già il derby costituzionale. Il renzismo si conferma arma di distrazione di massa.

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