Valanga populista in Francia. Cosi New York Times presenta in prima pagina la vittoria di François Fillon che ieri ha sbaragliato Juppè, dopo aver umiliato Sarkozy, e che sarà il candidato della destra “repubblicana” alle presidenziali dell’anno prossimo. “Ha vinto parlando di controllo dell’islam e dei migranti. Vi suona familiare?” chiede il giornale ai lettori americani, accostando Fillon a Trump. Per Fillon, spiega, “l’Islam radicale è come il totalitarismo nazista”. Egli promette di “ridurre l’immigrazione al suo stretto necessario”. È un cattolico tradizionalista, come la Vandea lo fu contro la Grande Rivoluzione, è amico della Russia, come lo fu la Francia alla vigilia della guerra prima guerra mondiale, non parla di Europa né professa la sua amicizia per la Germania. Promette mezzo milione di licenziamenti, d’un colpo, tra i dipendenti del pubblico impiego e una politica ultra liberista. “Fino a pochi giorni fa – sottolinea New York Times – era il terzo, il più debole, tra i candidati, la sua difesa dell’identità francese ne ha fatto il front runner”.

Fine della quinta Repubblica. La costituzione gollista del 58, quella che Mitterrand chiamava “colpo di stato permanente” ma con cui poi regnò 14 anni, quella che da sempre da noi si invoca in Italia per favorire “la governabilità”, ha smesso di funzionare. Nessun candidato socialista o della sinistra, nonostante questa area politica rappresenti un terzo dell’opinione francese, competerà al ballottaggio. Dove invece si confronteranno due destre reazionarie: Fillon contro la Le Pen. Come in America dove ha vinto il populista Trump e i democratici ora rimpiangono il socialista Sanders, le leggi maggioritarie non garantiscono più la scelta tra innovatori moderati e conservatori moderati. Il ceto medio non vota più “con la testa al portafogli”, non modera più schierandosi ora con l’uno ora con l’altro, i due poli. La democrazia governante o maggioritaria è divenuta un boomerang: ora esclude dai giochi una delle grandi correnti ideali democratiche, non garantisce equilibrio ma, al contrario, promette avventure. Negli Stati Uniti, in Francia, ovunque. Ed è la conseguenza dell’attacco islamista alla mondializzazione, in corso ormai da 15 anni, e della lunga crisi che dal 2008 ha fatto crescere in occidente disuguaglianze, disoccupazione giovanile, sfiducia nel futuro.

Renzi: se perdo il governo rischia. Tornano i tecnici. Da Barbara D’Urso il premier-segretario si è rimangiato il contrordine che gli era stato suggerito dal guru Jim Messina. Ha ripreso a dire che chi sceglierà il No voterà contro di lui, farà cadere il governo, aprirà la strada alla vendetta dei mercati, ridarà forza a certe mummie del passato. Renzi vuole “spaventare gli elettori – spiega Stefano Folli – con un scenario dominato dall’instabilità e dall’incertezza”. Il suo incubo è che, in caso di vittoria dei No, Mattarella incarichi qualcuno, per esempio Padoan, per rimediare ai guai provocati dalla legge di stabilità, ricucire con l’Europa, varare una legge elettorale condivisa dalla destra e dai 5 Stelle. Il premier-segretario cerca di salvare la propria leadership. Perciò batte l’Italia come un martello: è sempre in tv, ha schierato tutti i sindaci della maggioranza, la CNA e la Coldiretti, tutti gli assessori e i suoi presidenti di Regione, la confindustria e qualche ex rivoluzionario ora devastato dal senso di colpa per aver fallito. Una tale mobilitazione, una così forte pressione del governo su ogni singolo elettore, non si era mai vista (a mia memoria). Neppure al tempo della “crociata” democristiana contro divorzio e aborto. “Banche italiane in difficoltà se Renzi perde”, fa eco Financial Times. Sembra, e in parte è, una dichiarazione di voto per il Sì. Ma così il giornale dei “mercati” sottolinea anche i guai che il premier lascia in eredità, non avendo tirato fuori dalle secche Monte dei Paschi di Siena, Banca popolare di Vicenza, Banca veneta, Carige.

Torna Berlusconi. Con un faccia a faccia indiretto con Renzi, Barbara D’Urso, riesuma il cavaliere e promette al Corriere “il nuovo Nazareno dopo il referendum tra Matteo e Silvio, entrambi istrioni”. “Si farà in tv – dice – nella mia trasmissione”. La Stampa spiega (finalmente) che la riforma Boschi Renzi è la “pallida” copia di quella Berlusconi, bocciata nel 2006. Si diverte sottolineando come il No, che allora disse anche Renzi, sia ora diventato un Sì. Mentre il Sì, allora, di Berlusconi oggi si trasformi in un No. Giannini, per Repubblica definisce “win-win. Comunque vada, lui vince”, la strategia dell’ex Presidente del Consiglio. “Se passa il Sì, l’opposizione light che ha esercitato sarà la base per depotenziare Salvini e per provare a rifondare per le prossime elezioni il famoso centrodestra moderato. Se invece passa il No, chiunque sia a Palazzo Chigi (Renzi che non si dimette, Renzi che si dimette e ha un reincarico, un altro premier che lo sostituisce per guidare un governo tecnico) avrà bisogno di accomodarsi al tavolo con lui, unico “oppositore” pronto a offrire il suo 15%”.

Io spero, anzi conto, che il 4 dicembre prevalga il No. Perché solo così tornerà la politica. La smetteremo di litigare sull’uomo che vuole comandare da solo, ricominceremo a parlare di proposte. Quale legge elettorale per finirla, finalmente, coi nominati? Quale politica economica e che tipo di politica industriale vorremo darci? In che Europa (con che politica fiscale solidale, con quale “nuovo” welfare che non lasci indietro nessuno) saremmo risposti a restare? Oppure quali misure drastiche dovremo assumere contro evasione fiscale e capitale criminale, qualora ci toccasse di restare soli e di tornare alla lira? In ogni caso, qualunque sia la reazione del Renzi sconfitto, sia che si ritiri (come Achille) sotto la tenda del Pd meditando vendette, sia che resti ridimensionato a Palazzo Chigi, credo che il prossimo governo non potrà essere un governicchio. Perché dovrà far fronte alle ritorsioni di Bruxelles. Dopo una legge di stabilità irresponsabile, dovrà tener testa alla prevedibile speculazione dei mercati, preparare il vertice europeo nel sessantesimo dei trattati di Roma (prima occasione per fare il punto dopo Trump e la Brexit) dovrà favorire intese in parlamento per scrivere una nuova legge elettorale. Sarà una sfida per le due destre, per i 5 Stelle e le 2 sinistre.

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