Renzi rilancia la sfida dell’Europa, scrive la Stampa. “Dopo la festa di Obama il premier attacca su bilancio e migranti: sanzioni per chi non li accoglie”. Era ora! Non è così? Eppure c’era qualcosa di inquietante nella faccia del nostro premier mentre, da Washington, lanciava tali messaggi: la mascella indurita, gli occhi volutamente spenti, come a dire “sono grullo – così ama definirsi – e me ne vanto”. Il giro di parole detto con cura affettata: “noi aspettiamo la procedura d’infrazione…”. Oh bella! Sa che gli bocceranno la finanziaria? O “l’aspettiamo contro gli altri, che non accolgono i migranti”. Si aveva sensazione di un uomo che sta giocando a “la va o la spacca”. All in, si dice nel poker. Non a caso né Corriere né Repubblica citano Renzi nei loro titoli di prima pagina. Preferiscono depurare il fatto – ieri l’abbraccio con Obama, oggi il match con Juncker – dalle sue parole. Il Corriere apre con le conseguenze dell’incontro americano “Patto con Tripoli, gli aiuti italiani”. Repubblica guarda allo scenario europeo con gli occhi di Moscovici e Padoan: “Braccio di ferro tra Ue e Italia sulla manovra”: Bruxelles critica “sanatorie e una tantum”, Roma risponde “accettiamo suggerimenti ma non si cambia su migranti e sisma”. Ho la sensazione che Renzi si stia preparando, psicologicamente, a rompere gli indugi, a formalizzare con un colpo di mano la sua personale presa del potere. I grandi giornali non lo denunciano, ma non lo seguono.

La strada di Renzi verso la vittoria si fa sempre più stretta. Anche questo è un fatto per il Financial Times che dedica un fondo di prima pagina allo scontro che si è aperto nel Pd, tra i “vecchi” post comunisti (D’Alema e Bersani) e il new-new labour che Renzi vorrebbe costruire in Italia. Naturalmente il giornale finanziario preferirebbe il new labour ma non si fida del personaggio e prevede, per lui, un futuro nero. Piero Ignazi, per Repubblica, scrive cose analoghe ma in salsa italiana: “se vince il Sì, la minoranza può solo sperare in una sorta di riserva indiana…il segretario può invece proiettarsi verso il centro”. “A quel punto, il Pd come l’abbiamo conosciuto, composito e persino confuso ma ancorato alla tradizione della sinistra storica, cessa di esistere. Al suo posto nascerà qualcosa di “democrat”, ancora più indefinito, senza ancoraggi, pronto a navigare in altre acque: il suo vero tratto distintivo sarà rappresentato dalla leadership incontestata del segretario-capo del governo. Insomma un vero e proprio PdR (Partito di Renzi) come dice Ilvo Diamanti”. “Lo scenario della vittoria del No – prosegue Ignazi – è più chiaro: Renzi, dopo aver dato le dimissioni (salvo un voltafaccia che comunque minerebbe la sua credibilità, con tutte le conseguenze del caso e altri possibili scenari), avrà mano libera a costruire, come molti gli chiedevano già nel 2012, una sua formazione politica che apparirà molto più appealing per l’elettorato moderato (che non ha mai capito cosa ci stesse a fare con quei comunisti…). E il Pd ritornerà, ammaccato e indebolito, nell’alveo tradizionale della sinistra storica”. Conclusioni pessimiste: “È a rischio la tenuta del sistema perché il Pd è oggettivamente il partito cardine del sistema politico”.

Trump dice di non sapere se accetterà il verdetto delle elezioni. Con piccole variazioni, sia New York Times, che Washington Post e Los Angeles Times usano la stessa frase per presentare il terzo confronto presidenziale. Questa volta non ha vinto Clinton, sfoggiando sorriso e self control, come seppe fare nel primo faccia a faccia, né Trump, pure all’angolo, ha saputo, come nel secondo, indurre il sospetto che la sua avversaria fosse solo bugie e sostegno dei poteri forti. Questa volta Hillary non ha fatto niente, se non dirsi “orrificata” e Donald è parso inghiottito dai suoi incubi, costretto dalla stampa a cadere nella trappola verso cui lo spingeva Obama. “Non si è mai visto – traduco Obama a memoria – un candidato che mette in questione la legittimità delle elezioni, uno che piagnucola, che si dà per vinto primo del voto. Uno così non può stare là dentro – e il gesto indicava la Casa Bianca – perché quello che succede nel mondo non è sempre quello che il Presidente vorrebbe”. Donald battuto dai media? A questo punto direi di sì, anche se raccoglierà comunque milioni di voti. Vittima dunque di una congiura, di un complotto, di giornalisti che tracimano nella politica? Lascio tali sciocchezze a chi ripete come un disco rotto frasi sulla stampa terza, imparziale, che darebbe solo notizie. La stampa, come l’opinione pubblica in Kant, ha un occhio aperto al futuro ma categorie che si sono formate nel passato. Racconta (e abbraccia) la narrazione prevalente. E su tale base incalza, mette alla prova, giudica chi proponga un racconto diverso. Trump ha parlato soltanto ai suoi, come da tre anni rischia di fare in Italia il Movimento 5Stelle. Ed è finito in trappola. Non ha convinto, non è riuscito a innestare le sue proposte in filoni antichi della storia americana. I messicani e islamici, nel suo racconto, avrebbero dovuto occupare il ruolo degli indiani cattivi del far west. Putin avrebbe dovuto descriverlo come i nemici di Roosevelt raccontavano Hitler: uno che fa il lavoro sporco per noi e, fin quando non ci attacca, lo lasciamo là. Hillary e Barack doveva presentarli come vampiri, seducenti ma mortali per i piccoli e liberi proprietari americani. Lo ha fatto male, lo ha fatto a metà, si è messo troppo al centro della scena e tutta la stampa lo ha bollato: perdente!

Giornalisti, giudici, governi, tutti responsabili dei 16 anni trascorsi in carcere da Omar Hassan, scelto come capro espiatorio dell’agguato, 22 anni fa, in cui persero la vita Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. I genitori di Ilaria l’hanno sempre detto, Federica Sciarelli e pochi altri che Ilaria conobbero, gli sono stati dietro. E alla fine il depistaggio di Stato, esteso, omertoso, indecente, è stato messo a nudo da una sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto” detta dal tribunale di Perugia. Però, anche in questo caso, come per tante stragi rimaste senza colpevole, i depistatori hanno ottenuto lo scopo, sono riusciti a seppellire la verità. Probabilmente l’agguato fu commissionato da chi non voleva che si parlasse delle spedizioni di armi e rifiuti italiani in Somalia. Probabilmente, che pena dover usare questo avverbio dopo tutto il tempo trascorso. Mi ha sempre fatto male che Ilaria, alla quale volevo bene, non mi avesse detto che andava in Somalia per indagare e non solo per raccontare l’intervento nel corno d’Africa delle armate occidentali. Forse l’avrei scoraggiata – ed è quello che secondo me temeva – forse avrei cercato di proteggerla. Eravamo già allora, noi del Tg3, un ufo nel panorama del giornalismo italiano. La “sinistra” aveva costretto Curzi a dimettersi e puntava sul Tg2 del bravo Morrione. Per il Tg3 alla fine avevano scelto Andrea Giubilo, un democristiano e quindi un presunto moderato, ma amico di Curzi e capo redattore centrale di Tele Kabul, e Giubilo mi aveva voluto vice direttore. Facevamo ascolti che il Tg della terza rete non aveva fatto prima né ha mai fatto dopo. Ma stavamo lì, come coloro che son sospesi. Ilaria e Miran furono uccisi in Somalia mentre in Italia impazzava la campagna elettorale. Una settimana dopo Berlusconi vinse e portò con sé al governo Bossi e Fini. Ilaria e Miran li abbiamo lasciati soli in Somalia e dopo (mentre i segugi del sistema inquinavano le prove) un paese distratto gli ha scavato il vuoto intorno. Davvero una storia italiana.

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