La Brexit frenata dai giudici, scrive il Corriere, e sembra di intendere, in questo titolo, l’eco delle polemiche italiche contro l’ingerenza dei magistrati in politica. “Brexit sentenza a sorpresa”, dice invece Repubblica, “Il Parlamento dovrà votarla”. Per la verità questo sgomento, questa sorpresa prende solo coloro i quali hanno sostenuto a vario titolo in passato che la deriva plebiscitaria – che non chiamavano così, naturalmente – delle classi di governo fosse salutare per la democrazia. Non a caso la nostra Costituzione pone limiti severi al referendum abrogativo: “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Insomma, tra una elezione del parlamento e un’altra, il voto popolare referendario può e deve esercitare un controllo sull’attività legislativa, ma non sostituirsi alla democrazia rappresentativa e alle sue forme. Il dominus resta il parlamento, che dovrebbe essere rappresentativo della volontà popolare (quello eletto con il Porcellum – ha detto la nostra Corte suprema – non lo è). Tornando a Londra, è il Parlamento che ha ratificato l’entrata nell’Unione, è il Parlamento che la può revocare. La scelta di Cameron per il referendum è stata populista. E si è rivolta prima contro di lui, ora contro il partito che vuole la Brexit. Il governo della May ha presentato ricorso. Comportamento tipico di una classe politica cui manca il coraggio di assumersi le proprie responsabilità. Populismo, demagogia, opportunismo.

Referendum, Berlusconi tratta il rinvio con Renzi, la Stampa si butta e trasforma una chiacchiera di palazzo in titolo d’apertura. In realtà aggiunge subito dopo: “ma l’intesa non c’è ancora”. E ti credo! Berlusconi avrebbe chiesto a Renzi: a) di far eleggere direttamente dal popolo i nuovi senatori; b) di ridare alle regioni i poteri che la riforma gli toglie; c) di alzare il quorum per eleggere le cariche di garanzia. E, per buon peso, anche l’abolizione del ballottaggio introdotto dall’Italicum. Insomma avrebbe chiesto al premier di restare a Palazzo Chigi ma di alzare bandiera bianca. Credo che Renzi abbia capito di avere perso – perciò ora si aggrappa alla commissione (Pd) per cambiare l’Italicum – ma non ha certo intenzione di ammetterlo. Desidera che avversari e alleati si accontentino di un “pagherò”, di una cambiale e neppure firmata. Solo dopo, dopo aver incassato comunque un sì al referendum, dopo aver valutato lo stato dell’arte nel mondo – elezioni americane, brexit, la piega che avranno preso i confronti elettorali in Francia e Germania -, verrà il momento di decidere se confermare o cambiare la narrazione. Se restare nei panni del premier Napoleone, sindaco d’Italia, se preferite, con un legge elettorale che la sera stessa del voto gli consegni per 5 anni (quasi) tutti i poteri. Oppure se cambiare pelle, proponendosi come indispensabile tessitore di patti e garante di una intesa destra-sinistra, accordo di potere e per il potere.

Votiamo No il 4 dicembre. È il solo modo di disperdere l’aria mefitica che si respira nella politica italiana. Renzi – scusate, ma qui rispondo a un vecchio amico – sarà pure stato “un bravo ragazzo” che voleva provare a muovere le cose, ma ormai è diventato la mummia di sé stesso, il gran sacerdote di una religione in cui il popolo non crede ma che viene imposta come una cappa mediatica. Ancora ieri il capo scout e le giovani marmotte hanno esultato per la crescita, forte a loro dire, dei posti di lavoro stabili. Le cose non stanno proprio così. “Calcolando mese su mese – scrive Dario Di Vico sul Corriere – ovvero paragonando settembre ‘16 con agosto ‘16 gli occupati salgono di 45 mila unità ma a determinare l’aumento sono in toto i lavoratori indipendenti che saliti di 56 mila unità hanno compensato persino la riduzione degli occupati dipendenti (-11 mila)”. I dati dicono, in realtà, che aumenta il numero dei lavoratori ultra cinquantenni (bella forza: non possono più andare in pensione!), che aumentano gli impieghi precari (diventa “occupato” chi consegna il pranzo a casa per 2 euro l’ora, più le mance, se arrivano), dicono che un maggior numero di giovani prova a farsi assumere in qualunque modo e a qualunque condizione. Così sale all’11,7% – altro dato di ieri – la disoccupazione nominale. I dati si interpretano, si usano per far meglio, non si brandiscono come un manganello. Dunque votiamo No. Anche se sulla data del voto incombe la possibilità che il tribunale di Milano invii alla Consulta il ricorso presentato da Onida. Un ricorso – ci tengo a dirlo – costituzionalmente fondato, perché il quesito referendario è mendace e perché riassume materie diverse su cui non avrebbe senso esprimersi con un solo sì o un solo no. Purtroppo il referendum, come la riforma costituzionale, sono stati concepiti come istrumentum regni, come prova di una presa del potere. Solo da qui derivano le cosiddette ammucchiate e la sovrapposizione del merito politico e di quello costituzionale.

3 punti di vantaggio per Hillary, questo dice un sondaggio New York Times-CBS News. Il 3 per cento è appena sopra la soglia dell’errore statistico. Ma è comunque qualcosa. Però Trump può pure vincere – ricordate che Bush batté Gore nonostante il democratico avesse ottenuto più voti – tutto dipende dagli stati in bilico. Prenderne uno significa attribuirsi l’intero malloppo dei grandi elettori. E in caso di parità – dei grandi elettori – decide il numero degli stati. I repubblicani ne hanno di più mentre i più popolosi, California e New York, sono democratici. La vera notizia del sondaggio – i giornali americani li pubblicano per intero e studiarli è cosa piuttosto impegnativa – sta però in questa ammissione: “la maggioranza dei votanti si dice disgustata dello stato della politica americana”. Siamo in buona compagnia.

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