Grillo salva Raggi, scrive il Corriere. No, la “vende”, secondo il Giornale. Per Repubblica, “Raggi si piega”. La Stampa concorda e racconta la “Resa di Raggi”. Grillo – aggiunge – “Commissaria Roma” – “La Raggi cotta e mangiata”, lamenta il Fatto, a cui non va giù che Sala sia invece “indagato e santificato”. “Quo vadis”, si chiede il manifesto. Dove vanno? Raggi, Grillo e la stessa città di Roma. La nuda verità dei fatti è presto detta. Dopo aver minimizzato la portata dell’arresto di Marra “è un semplice dipendente comunale…il mio braccio destro sono i cittadini romani”, Virginia Raggi è stata messa sotto torchio dal Movimento 5 Stelle e da Beppe Grillo, calato a Roma per gestire la crisi. Alla fine si è piegata: ha fatto dimettere Salvatore Romeo da capo della sua segreteria e l’assessore allo sport, Daniele Frongia, da vice sindaco. Frangia, Romeo, Marra è in carcere, la Muraro indagata e fuori gioco: sono venute meno tutte le stampelle che Virginia aveva creduto di poter estrarre da un generone fascio-affaristico romano, che è poi l’ambiente dal quale anche lei proviene. Vice sindaco dovrebbe diventare l’ex indipendentista veneto, Massimo Colomban, già assessore alle partecipate, proposto da Davide Casaleggio. Insomma Raggi è andata a Canossa, con il capo cosparso di cenere, ma così ha mantenuto le stelle, cioè il diritto a esibire il marchio del Movimento. Almeno fino a quando non riceverà un avviso di garanzia per abuso d’ufficio, conseguenza dell’esposto depositato in procura dal suo ex capo di gabinetto, Carla Raineri.

Il Movimento 5 Stelle ha bisogno di tempo, deve capire che Grillo è stanco di fare la balia ai suoi “ragazzi” troppo divisi e rissosi, che la Casaleggio & Associati può funzionare da supporto ma non potrà mai sostituirsi, con la sua famosa piattaforma Rousseau, al confronto interno, al dibattito politico, ideologico e culturale, che è il solo modo, alla fine, per selezionare classi dirigenti meno instabili. Ora che Renzi non è più a Palazzo Chigi e (come vedremo) non è più il padrone assoluto del Pd, i 5 Stelle possono e devono cominciare a crescere. Smettere di dirsi pronti a governare (con tutta evidenza non lo sono) e prepararsi per davvero. Smettere di negare le divisioni interne per poi dividersi in cordate e fazioni. Finirla di sentirsi la setta degli onesti, e perciò diversi dal resto del mondo. Perché l’onestà – specie in politica – è una virtù da mostrare sul campo di battaglia, non una qualità esistenziale.

Un sondaggio al giorno. L’ultimo di Pagnoncelli dice che il 65% degli intervistati non è soddisfatto della nascita del governo Gentiloni. L’80% lo considera uguale al governo Renzi. il 73% vorrebbe votare subito o a giugno o al massimo in settembre. Quasi un sondato su due (precisamente il 45%) ritiene che Renzi, sconfitto, debba lasciare definitivamente la politica. Un 23% si accontenterebbe invece che restasse “per qualche anno in secondo piano”. E solo il 21% lo vorrebbe ancora alla guida del Pd per le prossime elezioni.

Io come Davide contro Golia, così Roberto Speranza si candida alle primarie. E Michele Emiliano lo appoggia: “gireremo insieme – promette – tutti i sabati e le domeniche”. L’uno come anti Renzi nel partito, l’altro come futuro candidato premier. In corsa come candidati segretari anche Enrico Rossi, presidente della Toscana, e forse il ministro (ligure) della giustizia, Andrea Orlando. Nessuno dei tre mi pare in grado di battere Renzi nella situazione e con le regole attuali, ma insieme i tre sono in grado di mordere i garretti del front runner, riducendone il peso nel partito e le ambizioni di una nuova corsa, in solo, verso Palazzo Chigi. E Renzi? Immaginerebbe elezioni al più presto, prima del congresso Pd e prima che i 5 Stelle risolvano la loro crisi che ha a Roma il suo epicentro. Secondo Scalfari, ora Renzi vorrebbe andare a votare con una legge proporzionale, ma corretta da un premio di maggioranza. “Gentiloni probabilmente non lo seguirà – prevede il fondatore di Repubblica – e tanto meno il presidente Mattarella che detesta di dover sciogliere le Camere molto prima della scadenza della legislatura”. Che farà allora Renzi? Revocherà la fiducia al suo governo? Difficile. Dunque, elezioni nel 2018, quando a sinistra ci saranno da sperimentare “altre personalità di buon conio, cominciando dall’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia”. L’oblio minaccia l’ex rottamatore e ormai, secondo Michele Prospero che ne scrive sul manifesto, “L’attivismo di Renzi per tornare al potere appartiene al campo del tragico. Senza più alcuna credibile capacità offensiva, la sua presenza al timone è la garanzia più certa del naufragio inevitabile”.

Vendola ieri ha sciolto SEL per farla confluire in Sinistra Italiana, il cui congresso fondativo si terrà a febbraio. Ma se Fratoianni e Fassina si vedono ben al di qua della faglia che si è aperta tra sinistra e Pd, D’Attorre, Zedda, Furfaro guardano invece ai pontieri, a condizione che costoro imbocchino un sentiero alternativo al “renzismo”. Non mi sottrarrò al confronto. A me pare che Speranza e Pisapia, Emiliano e Orlando non esprimano idee e cultura sufficientemente alternative a quelle con cui Renzi ha modellato il DNA del PD. Al massimo costoro credono che una maggiore attenzione ai “territori” e una regolazione democratica delle primarie possano far rivivere il centro sinistra di un tempo. Così non è, perché quel vecchio centro sinistra è politicamente morto con la crisi della mondializzazione (che avrebbe voluto gestire ed edulcorare). Così come non hanno più senso le primarie e tutto l’ambaradan della nuova (e ormai vecchia) vecchia politica, ora che un ceto medio arrabbiato ha decretato la fine del bipolarismo. Per far rinascere qualcosa a sinistra, serve un nuovo soggetto. Ma non nascerà dal “noi siamo”. Siamo ecologisti e pacifisti, femministi e amici dei migranti, profondamente legati ai movimenti dal basso e però in alto, nelle istituzioni.

Noi non siamo un c… A meno che non vogliamo rassegnarci ad apparire e a essere una variabile radical chic delle borghesie urbane, che sognano una mondializzazione più umana, allontanano dai loro occhi disagio sociale, povertà, rabbia, tenendoli ben fuori le mura. Noi possiamo proporci invece come levatrice di una ricerca (scientifica, culturale, politica) che progetti un modo nuovo di consumare e di produrre. Che provi a liberare le forze produttive dalla crisi mefitica del capitalismo finanziario. Combatta le disuguaglianze, abbatta i muri, denunci chi prepara le armi in difesa del vecchio dominio. Se un (mio) modesto post su Castro può raggiungere mezzo milione di persone, se nei mercati di Capo d’Orlando e di Caltanissetta si sapeva tanto della riforma Boschi da volerla consapevolmente bocciare, non dovrebbe esser utopico lanciare un dibattito di massa. Per costruire, nel fuoco del confronto, un programma alternativo per noi e l’Europa. Ma è indispensabile che le élites (o quelle che si propongono come tali) sappiano uscire dalla casa dell’Angelo Sterminatore, quella in cui Bunuel rinchiude le classi dirigenti con i loro vezzi eccentrici, con le paure, e la scimmia sulle spalle del fallimento psicologico. Solo una cosa così può saltare la faglia e parlare urbi et orbi.

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