Bitonci dopo Marino. Ero a Treviso a una manifestazione per il No, con il senatore 5 Stelle Girotto, quando, a pochi chilometri, una maggioranza di consiglieri, Forza Italia, Pd, 5Stelle, liste civiche, depositava le firme dal notaio per far cadere il sindaco leghista di Padova Bitonci. La prima considerazione è che la legge elettorale per i comuni ha smesso di funzionare. Il sindaco eletto al primo turno è in genere il capo fila di una coalizione impossibile che, per vincere, riunisce tutto e il contrario. Al ballottaggio, invece, prevale in genere l’outsider, ma anche in questo caso è probabile che i principali partiti non gradiscano la scelta e si mettano di traverso. Quella legge ha funzionato come antidoto al politichese tecnocratico nazionale: nelle città grazie a quella legge si sceglieva un volto più che un programma, una persona di cui fidarsi e a cui affidarsi. Ma ci sono dei ma. I poteri del sindaco si sono ridotti per via dei continui tagli delle risorse erogate. È ora più chiaro come i problemi delle città, specie di quelle grandi, si possano affrontare solo con una cooperazione rafforzata tra stato ed enti locali, cooperazione che spesso manca o è solo formale. Le scelte dei cittadini italiani sembrano orientarsi verso più poli, lungo discriminanti ideologiche, non le vecchie ideologie certo, ma sarebbe difficile sostenere che 5 Stelle, Lega, Partito di Renzi non abbiano una loro cifra ideologica, o se volete una loro “narrazione”. Per effetto di questi “ma”, la figura del sindaco eletto dal popolo diventa più fragile e contestata.

Il divorzio di Firenze. Tuttavia i giornali raccontano l’affaire Bitonci in altro modo perché mentre proprio a Padova si teneva un raduno della destra educata di Parisi, a Firenze, Salvini accompagnato dalla neo mamma Meloni, lanciava la sua sfida: “sono pronto a fare il leader, ha detto”. “Sfida nel centro destra”, titola il Giornale. “Sfida aperta nel centro destra”, conferma il Corriere. “Due destre in piazza”, Repubblica. È davvero “divorzio” fra le varie anime della destra? Non ancora, ma credo che una separazione consensuale diverrà presto inevitabile. I sondaggi dicono infatti che la destra, qualora si riunisse, potrebbe forse superare lo scoglio del primo turno e andare al ballottaggio. Ma poi verrebbe battuta sia che si dovesse confrontare con il Partito di Renzi che con il Movimento 5 Stelle. Ecco che Berlusconi – ieri ho pubblicato nel caffè un lungo brano della sua intervista al Corriere – ora chiede una legge elettorale proporzionale. E si riserva, semmai, di governare in alleanza con un Partito di Renzi ridimensionato. Dall’altra parte non credo, propaganda a parte, che Salvini immagini davvero di poter essere lui l’asso pigliatutto della politica italiana. Mi pare che manchino, da noi, le condizioni per ripetere un exploit come quello di Trump. Piuttosto segnalo come la Lega, e in particolare quella neo-democristiana di Zaia, abbia molto da guadagnare dalla legge elettorale proposta dai 5 Stelle. Si tratta di una legge proporzionale con circoscrizioni piccole, un sistema simile a quello spagnolo che premia i partiti più grandi ma premia anche quelli che – come la Lega – hanno un forte insediamento in taluni territori. Insomma credo che Salvini-Meloni e Parisi-Toti (con la benedizione indispensabile di Berlusconi) marceranno divisi per cercare poi, se i voti glielo consentissero, di colpire uniti.

Resta Matteo Renzi, sempre più solo. E perplesso. Il premier segretario, si sta giocando le ultime carte tentando di trasformare il referendum in plebiscito. La riforma sarà imperfetta, dice, (un eufemismo per non usare il termine “impresentabile”), ma è comunque sempre meglio cambiare così la costituzione che restare fermi, con il rischio che torni la vecchia classe dirigente. “Dobbiamo spingere sul tasto restaurazione o cambiamento”, confessa alla sua fan Maria Teresa Meli, “dobbiamo dimostrare che non non siamo establishment, ma la forza del cambiamento rispetto a un sistema che ha governato (male) l’Italia per decenni”. Matteo comprende, tuttavia, come sia difficile presentarsi ancora come rottamatore dopo aver vissuto a Palazzo Chigi gli ultimi tre anni. Dopo aver annunciato decine di volte, centinaia di volte una ripresa che non è arrivata o si è rivelata molto deludente: dopo aver tessuto l’elogio di Angela Merkel e dell’Europa per poi accusarli di ogni colpa. Se perderà il referendum, il premier segretario dovrà rimangiarsi l’Italicum e la famosa frase “serve una legge che la sera stessa del voto si sappia chi governerà per 5 anni”. E si proporrà come leader di una coalizione sinistra-destra e contro “l’anti politica” grillina.

A volte ritornano. Intervista di D’Alema al Corriere della Sera, lettera di Bersani a Repubblica. Bersani risponde al “sogno” di Ezio Mauro: un incontro a Palazzo Chigi tra lui e Renzi che reciprocamente si riconoscono e promettono di rispettarsi. “Aver messo in gioco il governo in temi costituzionali ed elettorali – scrive – ha acceso la miccia scoperchiando il vaso di Pandora delle tensioni che si sono accumulate, non solo tra noi”. Colpa di Renzi, dunque. Poi chiede un abbassamento dei toni e il riconoscimento del diritto della minoranza, “su temi costituzionali”, ad avere un diverso parere, quindi a votare No. Infine indica i punti cruciali del suo dissenso: “Cercare la governabilità in una concentrazione incontrollata del potere e in una drastica riduzione della rappresentanza è una strada sbagliata e pericolosa”, perciò via l’Italicum. “Il dopo referendum per me è fatto di un governo che corregga la narrazione e l’agenda. È fatto di una impostazione politica sfidante e alternativa alla destra”. Sfida politica ai 5 stelle e no alle larghe intese, dice Bersani, il contrario di quello che Napolitano ha preteso all’inizio della legislatura e che il Pd, prima con Letta e poi con Renzi, ha fatto. D’Alema dice invece al Corriere che “Renzi si è posto fuori dai valori del Pd” e se vincesse il Sì “Nascerebbe il Partito di Renzi. Tra i 2 e i 3 milioni di nostri elettori si sono silenziosamente scissi dal Pd, e il sentimento di austerità crescerebbe”. E l’unico modo di archiviare l’Italicum è votare No mentre il documento firmato da Cuperlo “è solo un foglietto confuso che delinea una legge elettorale non condivisibile”. E non condivisa neppure da Berlusconi.

America, un errore illudersi. Lucrezia Reichlin avverte i lettori del Corriere di non illudersi che Trump possa mantenere certe promesse, in particolare quelle che ventilano una politica keynesiana – robusti investimenti pubblici, si parla di mille miliardi, in infrastrutture – per rilanciare la crescita e creare molti nuovi posti di lavoro. Se lo facesse, spiega, il debito pubblico diverrebbe insostenibile. Nella stessa pagina Federico Fubini denuncia i rischi di una guerra commerciale con la Cina. Dazi sulle merci, in risposta alla svalutazione del renminbi? Impraticabile, perché “la banca centrale cinese oggi dispone di riserve valutarie da 3,150 miliardi di dollari, di cui due terzi in titoli di debito del governo americano o di agenzie pubbliche statunitensi. La Repubblica Popolare resta il più grande creditore degli Stati Uniti e le basterebbe vendere una piccola parte dei suoi titoli del Tesoro Usa perché i prezzi dei bond sovrani americani crollino e i tassi d’interesse a lungo termine s’impennano”. Eh sì, l’America non è più il dominus dell’economia mondiale. Quanto all’Europa e all’Italia, sottolinea Zingales sul Sole, se scenari del genere prendessero forma, subirebbero pesanti conseguenze. Anch’io penso che l’Europa rischierà di andare in frantumi, se non cambierà radicalmente la sua politica economica e non proverà a rilanciarsi come uno dei protagonisti politici sulla scena mondiale. Con l’Italia nel ruolo ingrato del vaso di coccio. Infine, sulle manifestazioni anti Trump. Io andrei in piazza con loro: è il nostro popolo. Farei “la cosa giusta”, per dirla con il manifesto. Ma ieri ho provato a spiegare che questa insorgenza della protesta non è sufficiente, non rappresenta un’alternativa e può diventare un diversivo.

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